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domenica 24 luglio 2016

Storie di Sicilia da non dimenticare. La strage di Feudo Nobile.


La storia è un caos di stati gassosi che si scontrano, fanno attrito producono nuovi elementi. In un preciso momento spaziotempo si forma un precipitato di collisioni incredibile: e lì la storia si addensa. Lì si concentrano i sensi che hanno originato quel precipitare e da li se ne sprigionano di nuovi. Quegli eventi hanno un significato che va ben oltre la ristretta dimensione spaziotemporale in cui appare confinato.”

Finita la seconda guerra mondiale la Sicilia è ridotta a un cumulo di macerie. Povertà e disordine politico istituzionale regnano sovrani. Nella confusione più totale a farla da padroni oltre alla mafia e ad una nobiltà agraria legata ancora al feudalesimo c'è un banditismo violento e spietato il quale per darsi un tocco di “rispettabilità” si mette al servizio del movimetno separatista siciliano. Nella zona occidentale dell'isola si afferma l'efferatezza criminale della banda di Salvatore Giuliano. Nella Sicilia Orientale si riversano le azioni violente e spietate della “banda dei niscemesi” guidati da Rosario Avila e Salvatore Rizzo. Per capire la dimensione criminale di questi personaggi basta pensare che su Avila, soprannominato “Canaluni”,   pendeva una taglia di poco inferiore a quella di Salvatore Giuliano. Questi personaggi indosseranno i panni degli indipendentisti, nei fatti erano dei violenti malfattori al servizio del potere politico mafioso di allora.
La mattina del 10 Gennaio 1946 il brigadiere Vincenzo Amenduni (39), comandante della stazione dei carabinieri di Feudo Nobile - territorio a cavallo tra Gela, Niscemi, Acate e Vittoria – guarda il panorama ritagliato dalla piccola finestra del suo ufficio. Il giorno prima ha ricevuto una segnalazione per pascolo abusivo, deve uscire di pattuglia per effettuare i controlli. La zona da tempo è sotto il controllo dalla banda dei “niscemesi” Rosario Avila e Salvatore Rizzo, criminali incalliti che hanno indossato i panni del separatismo siciliano diventando "colonnelli", nella Sicilia Orientale, dell'Evis. Amenduni sembra avere lo sguardo perso in quel frammento di panorama. Ha uno strano presentimento: la segnalazione ricevuta il giorno precedente gli sembra poco veritiera ma non può tirarsi indietro, deve effettuare il sopralluogo. Distoglie di colpo lo sguardo dalla finestra e ordina ai carabinieri Vittorio Levico (29) , Emanuele Greco (25) , Pietro Loria (22)  e Mario Boscone (22) di prepararsi immediatamente. Dopo pochi minuti la pattuglia è pronta per effettuare il sopralluogo. A presidiare la caserma rimarranno il carabiniere scelto Mario Spampinato (31) e i carabinieri Fiorentino Bonfiglio (28)  e Giovanni La Brocca (20). La piccola pattuglia si incammina per raggiungere la zona del reato, tra i militari aleggiava una certa preoccupazione. Poche settimane prima a San Mauro nelle vicinanze di Caltagirone c'è stato uno scontro durissimo tra Carabinieri e “separatisti” con diversi morti tra i banditi, inoltre un importate “dirigente” del Mis (movimento indipendentista siciliano), Concetto Gallo, è stato catturato e incarcerato. Mentre marciano ognuno è immerso nelle sue paure, di tanto in tanto si guardano in faccia come per darsi forza. Dopo qualche ora hanno già visionato diverse zone di pascolo e hanno parlato con diversi contadini della zona senza aver registrato nulla di importante. Si apprestarono a rientrare in caserma. Sulla strada di ritorno nei pressi di un caseggiato notano che i coloni che lo abitano fuggono alla vista di un consistente gruppo di banditi a cavallo. I carabinieri si rendono conto di essere caduti in un’imboscata, tentano di resistere rifugiandosi nel casale, hanno pochissime munizioni. Dopo uno scontro durissimo vengono accerchiati e catturati. Poco dopo la stessa banda assalta con armi e  bombe a mano la caserma di Feudo Nobile. I tre carabinieri rimasti nel presidio non riescono a contenere l'attacco e anche loro dopo una strenua resistenza vengono fatti prigionieri. Gli otto militari vengono legati e trascinati in una località che è sotto il controllo dei banditi. Sono un ottimo bottino, utile per  uno scambio di prigionieri. Rizzo e Avila, tramite la mafia, che fa da mediatrice, avviano una trattativa con lo Stato (vizio antico quello delle trattative mafia-stato).  Le richieste sono chiare: la liberazione di alcuni capi indipendentisti tra cui Concetto Gallo, arrestato il 29 dicembre del 1945 durante la battaglia di Sa Mauro. In caso contrario Avila chiede l’amnistia per sé e per la sua banda oppure una agevole fuga all’estero. Il negoziato va avanti per quasi tre settimane senza che si raggiunga un risultato. La sera del 28 gennaio Rizzo e Avila ordinano ai loro tirapiedi di far uscire dalla loro prigione gli otto carabinieri, li legano e intraprendono una marcia che si conclude in Contrada Bubonia, nel territorio di Mazzarino. La zona è ricca di cave artificiali utilizzate per estrarre lo zolfo. I “prigionieri” vengono denudati, fatti inginocchiare. Subito dopo verranno falciati da raffiche di mitra in sequenza così che uno possa vedere la fine dell’altro. I corpi verranno buttati dentro il pozzo di accesso di una miniera abbandonata.
Il 25 maggio del 1946 i resti degli otto militari vengono ritrovati grazie alla confessione di uno dei banditi che partecipò all'eccidio, tale Milazzo, che era stato arrestato a Catania pochi giorni prima. Milazzo è uno dei pochi sopravvissuti del gruppo criminale. Infatti, quasi tutti i componenti della banda dei niscemesi verranno uccisi dalla mafia perché testimoni scomodi della vergognosa trattativa banditi - mafia - stato. Rosario Avila, verrà ucciso il 16 marzo 1946, probabilmente ad opera di un altro bandito per intascare la taglia. Il corpo venne rinvenuto a pochi chilometri da Niscemi con la tesa spaccata e le orecchie mozzate (aveva ascoltato cose che non doveva sentire?). Gli succederà Salvatore Rizzo, ucciso il 17 febbraio dell'anno successivo.
Settant'anni dopo un giovane di origine niscemese, Rosario Avila, legato alla stidda di Vittoria viene arrestato, dopo qualche mese si pente e comincia a collaborare con la giustizia. Rosario Avila, il bandito "separatista", pare sia  suo parente.  La storia si ripete, la dimensione spazio tempo non ha confini.

lunedì 4 luglio 2016

Storie (non scritte) di Sicilia: Un giorno come un'altro.




Qualche mese fa l'amico Mario Mattia mi inviò questo suo scritto. Un racconto che tra le persone della Valle del Belice scorre di bocca in bocca  da diversi anni, un po come il fiume di quella terra. Mario lo ha raccolto e lo affidato a me. E' venuto il momento di conoscerlo.

AUGURI MARIO.



Un giorno come un altro. E come quello prima. Baracca Magazzinazzi 128B. Anche stamattina gli occhi si aprono al rumore di ferraglia di Pippo Cucinotta che esce dalla baracca accanto per andare in campagna a zappare.
-Cummoghiti, Pippu
Ogni santo giorno, estate, primavera, autunno o inverno che fosse, Maria Cucinotta diceva la stessa cosa ferma sull’uscio della baracca: ”Cummogghiti, Pippu”. Mio padre ci scherzava e a bassa voce ripeteva “cummogghiti, Pippu” e aggiungeva qualche insulto. Non c’era buon sangue tra lui e Pippo per via di una vecchia storia di lavori non pagati. Mio padre era muratore a Santa Ninfa. Ma un muratore in un paese distrutto dal terremoto serve a poco. Lavoretti, piccole sistemazioni, poco altro.
Erano arrivati con gli elicotteri. Me li ricordo ancora. Una folla di poliziotti, uomini incravattati e preti li aspettava. Un applauso appena scesero dall’elicottero. Tutti eravamo con le bocche aperte  a guardarli. Gli elicotteri. Parlarono e dissero cose belle, importanti. Solidarietà e compassione per la nostra sofferenza.  E promisero case nuove e lavoro. Al massimo in un paio d’anni. Poi ripresero gli elicotteri e gli uomini incravattati, i preti e i giornalisti se ne tornarono a Palermo. A casa.
Noi tornavamo in tenda. Me la ricordo la tenda. Mi ricordo il freddo e il fango che entrava ogni volta che pioveva. Gli altri bambini sembrava che si divertissero. Io, che soffrivo di geloni, le odiavo le tende. E le odiava pure mio nonno Totò. Poverino. Si ammalò di polmonite e lo portarono ad Agrigento. Mia mamma lo andava a trovare e al ritorno ci portava il prosciutto che le regalavano in ospedale. Il nonno morì dopo un paio di settimane. Ma lui era vecchio.
La cosa più fastidiosa della vita in baracca era il fatto che appena si svegliava il primo della famiglia, anche tutti gli altri dovevano alzarsi. E mio padre ogni mattina si alzava presto per andare a lavorare in campagna o per andare a Menfi dove mio zio aveva una piccola vigna. E non c’era domenica o festa comandata. Quando si vive in 24 meri quadrati ci si corica e ci si sveglia tutti insieme. Si fa tutto tutti insieme. Anche con i vicini. Si litiga, si fa l’amore, si studia, si piange. Tutti insieme.
Dicevo di quelli con gli elicotteri. Erano passati i famosi due anni e noi eravamo ancora li. La sera i grandi si riunivano in una delle baracche “americane” (le chiamavamo così perché le avevano regalate i militari americani ed erano molto più grandi di quelle dove si abitava) e volavano le maleparole. Si parlava di manifestazioni, di lotte popolari. Mi ricordo uno dei capi, mi pare si chiamasse Lorenzo, che parlava benissimo e mio papà lo rispettava tantissimo. Ma non cambiava mai nulla, i giorni erano sempre uguali.
O quasi. Un giorno in effetti fu un po’ diverso dagli altri. Era maggio e il giorno prima mia madre era tornata contenta perché aveva trovato lavoro da una signora di una baracca dell’Acquanova che aveva la figlia che doveva sposarsi e le aveva commissionato lenzuoli e tovaglie per il corredo. Mia madre aveva le mani d’oro e certe volte venivano da Menfi per comprare le sue tovaglie ricamate. Si era festeggiato con i miei zii e le donne avevano preparato le cassatelle di ricotta.
Ci eravamo abituati ai tipi strani. Ogni tanto arrivavano ragazzi del nord con chitarre, capelli lunghi, macchine colorate. C’erano delle baracche che erano rimaste vuote, svuotate da quelli che emigravano al nord o in Germania, e questi tipi ci andavano ad abitare “per condividere l’esperienza” come dicevano loro. In realtà non condividevano un cazzo. Dopo un paio di settimane e dopo quattro giorni senza acqua e senza luce se ne tornavano a casa loro. Al Nord, per lo più.
A essere onesti non tutti si comportavano così. In una baracca vicino la nostra erano venuti ad abitare una coppia di giovani architetti padovani. E avevano portato le loro due figlie. Una aveva la mia età e si chiamava Marina, l’altra aveva giusta giusta l’età di mia sorella Rita e si chiamava Carla. Loro erano rimasti e il loro papà lavorava con il gruppo che si occupava di progettare il nuovo paese. Mio padre li aveva aiutati a sistemare la baracca che era stata scoperchiata da una tempesta di vento e da allora erano diventati amici. O almeno, tanto amici quanto possono essere un architetto comunista padovano e un muratore ignorante di Santa Ninfa.
Sto divagando. Dicevamo dei tipi strani che ogni tanto capitavano tra le baracche. Bene, quel giorno di metà maggio del 1970 arrivarono un gruppo di una decina di ragazzi. Solito armamentario di capelli lunghi, chitarre e vestiti colorati, ma stavolta c’erano con loro due ragazzine. Due ragazzine biondissime. Tedesche come quattro dei ragazzi. Non sembravano fossero i loro genitori perché erano veramente giovani e poi erano sempre libere di andare dove volevano. O almeno. Quasi libere. In realtà mi accorsi che uno degli hippy tedeschi le seguiva sempre. Fu proprio Marina ad avvicinarle e a cercare di coinvolgerle nel nostro gruppetto di gioco. Non parlavano una parola di italiano, ma a gesti ci capivamo alla grande. Si chiamavano Bettina e Regina ed erano gemelle. Col loro arrivo cominciò un periodo divertente. Ci incontravamo tutti i giorni alla baracca degli hippy e li si passavano serate cantando canzoni della resistenza e altre in inglese che mi piacevano assai. Loro fumavano strane sigarette che facevano un odore forte. Solo dopo avrei scoperto che era hascisc. Erano molto simpatici ed erano contenti del fatto che coinvolgevamo nei nostri giochi le due gemelle. Che invece erano timidissime. Un giorno Bettina, che delle due era la più coraggiosa, cominciò a piangere proprio mentre ci stavamo salutando per tornare alle nostre baracche alla sera, e correndo da uno dei tedeschi che erano con loro gli gridò qualcosa tipo “wo ist mami???”. Marina (che era molto furba) mi disse che chiedeva dov’era la sua mamma. Io non ci volevo credere. Perché una mamma doveva abbandonare due bambine così piccole?
Mio padre non voleva che frequentassi troppo quei tipi. Non si fidava. Secondo loro era meglio lasciar perdere gli stranieri. Diceva che non sapevano nulla della nostra sofferenza e venivano solo per provare “cose strane”, come le chiamava lui. Ma è ben noto che al cuore di un ragazzino di 10 anni non si comanda. E quel cuoricino si era invaghito di Regina. La gemella timida. Che parlava pochissimo. Con grandi occhi azzurri come non ne avevo mai visti da nessuna parte.
La scuola era ormai finita e nelle sere d’estate tra le baracche si riusciva persino a sorridere mentre la sera le donne cucinavano all’aperto e gli uomini dimenticavano la frustrazione della non-vita che facevano. Si raccontavano storie dei tempi del militare o addirittura storie di quando abitavamo in case vere, fatte di mattoni. Prima di quel 15 gennaio di due anni prima. Prima della fine della loro povera dignità. Prima dell’inizio dell’incubo che uccide l’uomo come o più del terremoto. I tedeschi vennero vicino la mia baracca e cominciarono a cantare “Bella ciao” a squarciagola. Gli italiani che li accompagnavano avevano portato dolci di cioccolata e li davano ai ragazzini che cantavano con loro. Fu una bella serata, ma il momento più bello fu quando mio padre mi diede il permesso di andare a mare con loro, l’indomani. Partimmo di mattina presto con la Renault rossa di un italiano simpatico. In quella macchina stavamo noi ragazzini e Regina era proprio accanto a me. Non parlammo molto durante il tragitto, ma ricordo che appena arrivammo a mare lei rimase a bocca aperta davanti a quella infinita spiaggia, a quel mare azzurro con i gabbiani che cercavano di pescare qualcosa tra le piccole onde che raggiungevano la battigia sfiorandoci i piedi ancora bianchissimi. Purtroppo la barriera della lingua era pressoché insormontabile, ma, distesi sulla sabbia mentre gli altri ragazzini correvano dietro ad un pallone, capii che mi parlava della sua casa in Germania, che era grande e che lì ci stava il suo papà. Le chiesi della mamma e a gesti mi disse che era dall’altra parte del mare. Pensai che si sbagliava, visto che dall’altra parte di quella zona di Sicilia c’e l’Africa. Provai anche a chiederle perché suo padre e sua madre erano lontani. Lei abbassò lo sguardo e si guardò intorno, cercando con gli occhi Hans, il ragazzo che le seguiva sempre. Lui si era allontanato seguendo Bettina che strillava per avere un gelato. Lei mi guardò e fece con l’indice e il pollice della mano destra il segno della pistola, la puntò sulla mia testa e disse “bum”. Io mi misi a ridere. Ma lei no. Mi guardò ancora e rifece lo stesso gesto. “Bum”.
Si girò di scatto e scappò verso il mare. Io la seguii.  Lei si fermò improvvisamente e mi fece cenno di fermarmi. Indicò Hans che intanto stava tornando e ripeté “bum”.
Poi corremmo insieme e non parlammo più.
La sera, in baracca, pensai a quella giornata. Era stata bellissima. E Regina era bellissima. Un po’ strana con quei “bum”, ma così diversa dalle altre bambine, così misteriosa.
Quell’estate fu fantastica. Tra me e Regina c’era un rapporto speciale. Mia madre se n’era accorta e mi procurò un piccolo anello che le regalai. Fu verso la fine di luglio che un pomeriggio, mentre giocavamo con le gemelle ad una specie di gioco dell’oca spuntò correndo Hans che le rimproverò in tedesco e le portò subito via. Noi li seguimmo ma ci beccammo grida e urla in tedesco che ci fecero desistere. Le gemelle furono riportate in baracca e per un paio di giorni non le vedemmo in giro. Quando uscirono di nuovo Bettina era nervosissima e Regina triste. Avevano conosciuto cosa voleva dire il caldo in baracca e per di più la loro baracca era una di quelle senza finestre. Un forno. Da quel giorno Hans e gli altri erano sempre tra i piedi e i miei sforzi per stare solo con Regina erano inutili. Anche le bambine erano strane. Sembravano spaventate. Si guardavano sempre attorno. Come se aspettassero qualcuno.
Credo che era la fine di luglio o i primi di agosto. Era una mattina di caldo infernale e stavo tornando in baracca dopo una passeggiata fino al fiume a cercare fresco e mio padre mi venne incontro insieme all’architetto e ad un’altra persona. Mi fecero sedere fuori dalla baraccopoli, su un vecchio tavolo di legno abbandonato. Mio padre mi disse che quella persona doveva chiedermi una cosa ma che io mi dovevo impegnare a non dire niente a nessuno. Era un tedesco che, in buon italiano, mi chiese delle gemelle e degli hippy che le accompagnavano. Io volevo andarmene ma mio padre mi bloccò. Io dissi pochissimo. Che le seguiva Hans. Che con loro c’erano anche degli italiani. Mi chiese se li avevo mai sentiti dire qualche cosa di strano, di ripetitivo, magari quando arrivava qualcuno di nuovo nel gruppo. Effettivamente io lo avevo sentito e mi era sembrato talmente strano che credevo si trattasse di uno scherzo. Qualche settimana prima erano arrivati un paio di tedeschi che si erano presentati davanti le baracche degli hippy e Hans li aveva fermati. Loro non mi avevano visto perché ero dietro la baracca accanto a giocare con Marina e le gemelle e, guardandosi intorno, dissero  “Professor Schnase” o qualcosa di simile. Quando raccontai questo episodio il tedesco strinse il pugno e mi abbracciò. Mi portò di lato e mi chiese se davvero volevo bene a Regina, come aveva saputo. Io arrossì e feci di sì con la testa. Mi disse che avevo fatto la cosa giusta e che mi avrebbe scritto una lettera quando tutto fosse finito, per spiegarmi cosa stava succedendo, ma che adesso dovevo assolutamente stare zitto altrimenti Regina sarebbe stata in grave pericolo. Giacomo, l’architetto padovano, mi confermò che le bambine erano in pericolo e che da me dipendeva la loro salvezza. Io gli credetti. Volevo bene a quell’uomo buono che aveva lasciato la sua bella casa per mangiare fave e pane duro con dei poveracci come noi. Nei giorni seguenti mi sforzai di dimenticare quell’incontro e di essere normale. Regina probabilmente si accorse di qualcosa di strano perché una sera mi afferrò il mento tra le dita e mi fece segno di non guardare più per terra. Mi resi conto che non la guardavo più in faccia fin da quel pomeriggio. E, chi lo sa, nei miei occhi lesse qualcosa, perché divenne seria e scappò dentro la baracca.
Un paio di giorni dopo non fu lo sferragliare della porta di Pippo Cucinotta a svegliarci, ma qualcuno che bussava alla porta con insistenza. Era Giacomo. Mio padre disse di non uscire dalla baracca e lo seguì fuori. Faceva un caldo tremendo quella notte. Sentii voci concitate e macchine che sgommavano in lontananza. Mio padre rientrò che era giorno fatto. Mi guardò e mi disse una cosa che già sapevo. Le gemelle erano andate via. In realtà erano andati tutti via. Tutti. Hans, gli hippy tedeschi e quelli italiani. Erano scappati via lasciando un sacco di robaccia nelle baracche. Con Marina e gli altri ragazzi ci ritrovammo nel pomeriggio. Qualcuno diceva che li avevano arrestati tutti.
Io ero sconsolato. Ero arrabbiato con me stesso perché pensavo che mi avevano preso in giro. Che avevano portato via Regina e la sorella per fargli del male, ed era tutta colpa mia. Si. Tutta colpa mia.
Quella sera non rientrai in baracca. Restai a ciondolare in giro fino a sera tardi. Giravo intorno le baracche degli hippy con la speranza di rivederli apparire. Magari avevano spiegato tutto e Regina sarebbe tornata a vivere in quel cesso di posto. Che negli ultimi tre mesi era diventato bellissimo.
Quando sentii i passi che si avvicinavano scappai verso la collina. Dietro un ammasso di ferrovecchio mi nascosi e vidi quelle persone. Erano tre e tenevano la mano destra sotto la giacca leggera. Parlavano tedesco e una di loro era una donna bionda. Sembrava arrabbiata con i due compagni e agitava le braccia. Rimasero pochissimo. Salirono in una macchina posteggiata dietro una baracca abbandonata e se ne andarono.
Nessuno parlò più di loro. In poco tempo tutto tornò alla noia e alla nota disperazione. Quando ricominciò la scuola tutti si erano scordati di quegli strani personaggi. Un paio di anni dopo, con i miei, ci trasferimmo dallo zio a Menfi. A lui avevano assegnato una casa e per altri 6 anni abitammo in quattro stanze in otto. A volte mi mancava la baracca. Poi ci assegnarono un appartamento a Santa Ninfa. Una casa tutta bianca che a guardarla d’estate bisognava coprirsi gli occhi per non restare accecati. Una casa che sembrava costruita sulla luna. Tanto era differente da come l’avevamo sognata e immaginata. Io andai a studiare a Catania, grazie ai sacrifici di papà e ai miei. Un giorno, dentro una lettera di mia madre, trovai un’altra lettera. Veniva dalla Germania. La mandava Stefan, il tedesco (era un giornalista) che avevo incontrato in quel torrido pomeriggio d’agosto. Finalmente dopo 12 anni seppi la verità.
“Caro Mario,
Devo saldare un vecchio debito con te. E adesso che tutto è ormai passato alla storia posso raccontarti chi erano quelle bambine che, ormai tanti anni fa, hai incontrato nella baraccopoli dove abitavi. Il loro cognome è Rohl e vivono in Germania con il padre, un famoso giornalista mio collega ed amico. La madre è morta nel 1976. Si è impiccata nella prigione dove scontava la pena per una serie di atti atroci compiuti in Germania tra gli anni 60 e 70. Il suo nome è molto noto qui da noi ma anche in Italia. Si chiamava Ulriche Meinhof e, insieme ad un uomo di nome Andreas Baader, aveva formato un gruppo di estrema sinistra rivoluzionaria che prese il nome di RAF o Rote Armee Fraktion. Qualcuno li paragona alle vostre Brigate Rosse e per certi versi il paragone ci sta. Per altri no. Qualche mese prima che tu le conoscessi, la madre le aveva rapite e portate con sé. Successivamente lei era andata in un campo di addestramento e le aveva lasciate a dei fiancheggiatori. Che le portarono in Belice. Io avevo capito che si trattava delle figlie del mio amico Klaus quando alcune persone mi avevano raccontato di questo strano gruppo di persone che era andato ad abitare tra i terremotati del Belice. E che tra loro c’erano due bambine.  Io mi trovavo lì per un servizio giornalistico e grazie a te e alla tua gentilezza ho saputo qual era la parola d’ordine che permetteva di avvicinarsi alla baracca delle bambine. Non posso negarti che siamo stati aiutati da altre persone di cui non posso parlarti. Le abbiamo prese senza combattere e senza spargere sangue. Le abbiamo riportate al padre e con lui vivono tuttora. Stanno benissimo e Regina si ricorda di te. Non posso dirti di andarle a trovare perché esporrei loro e te ad un grave pericolo. Gli anni sono passati, ma ancora molti sono fedeli a quell’ideologia assassina. E comunque sono sicuro che capirai che trauma hanno dovuto affrontare quando è morta la loro madre e quanto sia tuttora difficile farle crescere nel modo più normale possibile. Questo ti dovevo, Mario. Se ancora hai dubbi sulla tua scelta di quel giorno, sappi che se non le avessi portate via, le due bambine erano destinate a partire dopo pochi giorni per un campo di addestramento militare in Africa del Nord. Dove sarebbero state cresciute nell’odio e nella violenza. Quel piccolo gesto invece le ha salvate. Adesso che sei un uomo sono sicuro che capirai.  Un abbraccio, Stefan”.
Era una bella grafia, pulita, ordinata.
Quella stessa mattina presi il treno per Palermo. Da lì avrei preso il bus per Santa Ninfa. Il lento scorrere delle colline d’argilla azzurra nel piccolo schermo del finestrino fu meno duro e aspro del solito. Tornavo a casa.

Mario Mattia