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domenica 20 dicembre 2020

FARE LE COSE PER BENE, SEGUIRE I SOLDI PER TROVARE LE MAFIE.


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Ci sono vari modi per capire le economie criminali. Io, per semplificare, li ho ridotti sostanzialemnte a due: il primo è quello di focalizzare l'attenzione sulle realtà dove storicamente le mafie hanno avuto un  ruolo sociale dettato prevalentemente da azioni violente, spesso anche eclatanti. Qui le mafie hanno costruito economie precarie, che si reggono sullo sfruttamento, la provvisorietà  imprenditoriale,  l'abbandono scolastico; cioè si reggono grazie al sostegno sociale, politico e culturale di ogni forma di degrado.  L'altro modo è quello che analizza i comportamenti di gruppi imprenditoriali forti e strutturati che impongono, con un certo "stile", le loro regole. Queste, di fatto, sono un soggetto socio-politico-economico che esercita il suo potere come una vera e propria signoria territoriale (definizione di Umberto Santino). Questa premessa è il primo passo utile per cominciare a setacciare certe dinamiche economiche che si sviluppano da tempo anche nel nostro territorio. In provicia di Ragusa, tra la parte Est e la parte Ovest, sono in gioco ricchezze economiche e contesti sociali ben diversi, che hanno però un unico denominatore: la gestione e l'investimento di masse significative di denaro. Sembra strano, ma questi investimenti sono più corposi e significativi li dove non si fa un uso abituale della violenza. Una conferma di ciò arriva dalla relazione della Commissione parlamentare antimafia, quella approvata nel febbraio del 2018. Nella stessa infatti a pag 27 si legge che le mafie non usano  "la violenza  sui mercati legali ciò li danneggerebbe nel mimetizzarsi e nel reinvestire" le somme che devono riciclare nell'economia legale. 

Questo fatto pone un quesito: Vittoria, essendo un territorio caratterizzato da una criminalità organizzata violenta, è da sempre sotto l'attenzione dei media e degli organi inquirenti; è forse questo il motivo per cui in questa zona non è molto conveniente fare investimenti di un certo tipo? Per provare a rispondere a questa domanda va fatta una piccola analisi economica. Osservando i fatturati delle aziende presenti nella nostra provincia nel sito reportaziende.it/ragusa, vengono fuori due dati: il primo ci dice che tra le prime 20 aziende siciliane per fatturato ci sono cinque società iblee. Un recod per una provincia di modestissime dimensioni. Il secondo dato ci dice che i fatturati di queste cinque imprese (tre di Modica, una di Ragusa e una di Comiso) supera il miliardo e mezzo di euro. Come si può notare emerge una geografia economica interessante. Infatti, in tanti pensano che sia il Mercato ortofrutticolo di Vittoria, con i suoi settanta box, il cuore dell'economia iblea e di contro il centro - date le decine di inchieste che lo hanno interessato - di certi interessi. Eppure sommando i fatturati delle attività che operano direttamente dentro il Mercato non si superano i cinquecento milioni di euro. Viceversa le tre imprese di Modica superano i noventocento milioni di euro, cioè esattamente il doppio della struttura commerciale ipparina.  Non sto dicendo che queste imprese siano in odore di mafia, ma penso che mettere sotto attenzione l'economia di un territorio, ritenuto immune a prescindere da qualsiasi anomalia. mi sembra, a mio avviso, un fatto quasi ovvio. A volte, senza voler pensare male, uno si può domandare: ma certi business hanno bisogno del silenzio e della complicità delle istituzioni?

Giovanni Spampinato, che di cose ragusane e modicane se ne intedeva ci ha lasciato una frase: "ho capito che quello che faccio lo devo fare bene". Anche il dott. Giovanni Falcone ci ha lasciato una frase: "segui il denaro e troverai cosa nostra". E' venuto il momento che gli insegnamenti che ci hanno lasciato queste due persone - uccise dalle mafie - non vengano solo ricordati in convegni ricchi di tanta retorica,  ma siano soprattutto messi realmente in pratica; perché tra la veemenza dei gruppi criminali vittoriesi e la calma dinamica dell'area ragusana - modicana è morta, da tempo, la narrazione della provincia tranquilla.





sabato 7 novembre 2020

Una manifestazione, tanti dubbi , una certezza.

Sono passate due settimana dai fatti di domenica 25 ottobre. A bocce ferme e con gli animi un po' meno esacerbati vorrei provare ad analizzare ciò che è successo in poco più di due ore nel centro storico della città. Ho raccolto filmati e messaggi sui social per capire da dove è partita questa manifestazione e perché ha avuto un epilogo così triste (la foto  della Polizia pronta a intervenire che ho tratto da Facebook ne è la conferma). Da quello che mi risulta, tutto parte sabato 24 ottobre. Inizia un tam tam di messaggi su WhatsApp "contro le restrizioni" previste nella bozza del Dpcm che riguardano principalmente i bar, i pub e i ristoranti. "Riuniamoci per una protesta pacifica. Piazzetta ex Prince vicino piazzetta "dove c'è il cavallo" ore 21:00 ci vediamo la per percorrere tutta la via Cavour fino in piazza del Popolo". Il messaggio è seguito da un secondo avviso enigmatico: "Giralo e avvisiamo tutti i proprietari dei locali e noi civili..in privato però sennò la polizia arriva prima di noi". Quindi la manifestazione non era autorizzata? Non era indetta dagli operatori commerciali? E poi: perché la Polizia non doveva sapere nulla? 


I messaggi verranno inoltrati a centinaia di persone fino al tardo pomeriggio di domenica. Alle 21 della stessa domenica a Piazza Italia un folto gruppo di persone si concentra attorno alla "statua del cavallo" e li iniziano a parlare alcuni titolari di attività di ristorazione i quali molto chiaramente decidono di non partecipare perché non posso "associarsi" con chi aveva deciso di manifestare in  modo molto poco ortodosso e poi si preferisce organizzare una manifestazione con "determinati criteri a partire dalle autorizzazioni che sono importanti". E' evidente il disagio tra gli esercenti, così come è evidente il loro senso di responsabilità e di rispetto per le regole democratiche. Infatti, molti di loro non prederanno parte alla "passeggiata pacifica". La manifestazione ha comunque inizio. Un corposo gruppo di persone si avvierà per la via Cavour per poi raggiungere Piazza del Popolo. Durante il percorso verrà invocato "libertà, libertà", parola che possiede un significato ampio e non riducibile (e comunque, stanno o no manifestando "liberamente"?) e di tanto in tanto verranno fatte esplodere delle bombe carta (tanto perché manca la "libertà"). La manifestazione sarà ripresa in diretta attraverso i social da alcune persone e i video verranno commentati. Tra i vari commenti ne ho notato uno che ho conservato perché a mio avviso è particolare 

 
"... è partito tutto dai ragazzi"  Ma chi sono questi "ragazzi"? Non sarebbe interessante capire cosa sia realmente successo?   I titolari delle attività erano tra gli organizzatori si o no? Erano i promotori e sono stati esautorati?  L'unica cosa certa - aggiungo coraggiosa - è stata la presa di distanza da parte dei tanti titolari di attività di ristorazione pub,  bar, ...  i quali si sono tirati fuori da questa protesta tanto strana quanto anomala.

Questa in breve la storia depurata dalla vicende di carattere "politico", le stesse meritano una valutazione a parte che verrà fatta successivamente. Quello che a me ora interessa è capire chi ha organizzato questa "manifestazione" e soprattutto: quale scopo reale aveva questa protesta. Ci sono fatti che vanno analizzati e  chiariti. Provo a fare la mia valutazione.

Vittoria da tempo è diventato il centro della movida di buona parte della  nostra provincia. Persone, soprattutto giovani, Covid permettendo, vengono a trascorre le serate dei fine settimana nel centro storico della nostra città, il quale, negli anni, è stato via via valorizzato urbanisticamente. Ciò ha permesso la nascita di molte realtà imprenditoriali serie e qualificate che operano nel settore della ristorazione e dell'accoglienza. Ma è anche vero che questo pezzo di città si è trasformato in una zona franca dove piano piano si è imposta una sorta di sospensione della legalità e soprattutto dei controlli. Infatti, la criminalità organizzata, quella fatta dai piccoli spacciatori che si atteggiano a boss di quartiere, ha trovato terreno fertile; lentamente si è imposta senza nessun contrasto e si è creata il suo mercato spacciando droghe di ogni tipo. Un traffico legato, naturalmente, ai tanti avventori che frequentano la zona i quali, ovviamente, non bazzicano nel nostro centro storico solo per apprezzare gli ottimi piatti o per bere un buon vino o un'eccellente birra artigianale, ma anche per cercare lo "sballo". Tutto questo, naturalmente, ha creato nel tempo problemi di ordine pubblico. Ciò che scrivo potrà pure non piacere ma è la cronaca recente che ci racconta queste cose. Il riemergere dell'emergenza Covid e le conseguenti disposizioni imposte degli ultimi DCPM hanno obbligato i locali a chiudere e quindi di colpo sono venuti meno sia clienti che vivacizzavano il centro storico sia i consumatori di "sballo". Questo, oltre a mettere in crisi le attività economiche legali (che vanno opportunamente sostenute), ha messo in crisi lo smercio degli stupefacenti. Vittoria è una grossa piazza di spaccio, qui la droga scorre a fiumi e una buona parte delle somme che provengono dal traffico al minuto è stata sempre reinvestita - grazie alle complicità di un'area grigia - nell'economia legale. Le norme anti Covid, quindi, non solo hanno fermato l'economia sana ma hanno anche ridotto gli incassi delle mafie. Sarà stato questo il motivo per cui i "malacarne" che gestiscono lo spaccio si sono mobilitati e hanno provato a gestire e capeggiare la "rivolta" provando ad utilizzare i ristoratori come scudo? Sicuramente! La cosa certa - che pochissimi hanno evidenziato - è come l'economia legale non sia caduta in questa trappola e sia riuscita, con coraggio e determinazione, a smarcarsi da questa "manifestazione". 

Chi lavora nel rispetto delle regole sa quanto sia importante il riguardo verso le istituzioni e questa è una città di persone che hanno fatto del lavoro legale la loro ragione di vita. Sono invece le istituzioni che non hanno capito questa città e i suoi problemi, facendola chiudere di più in se stessa, avallato così un concetto distorto che la rende ancora più invisa.

martedì 27 ottobre 2020

Giovanni Spampinato, Ragusa 48 anni dopo.


Il 27 ottobre di 48 anni fa a Ragusa veniva ucciso Giovanni Spampinato, un giornalista che cercava la verità. Giovanni aveva capito cosa si muoveva da tempo sotto la tranquilla e indolente Ragusa. Alzò un lembo di quel tappeto che nascondeva verità imbarazzanti e iniziò a raccontarle. Minò alla base l'apparente e falsa serenità ragusana. Diventò pericoloso. Andava eliminato secondo uno schema che non sollevasse altra polvere. Fu ammazzato e poi iniziò una garbata delegittimazione del suo lavoro e della sua persona: "era un provocatore", "uno che se l’è cercata".  l'impostazione passò senza tante difficoltà, come  se avesse meritato quella fine e quindi diventò presto  un modello da non seguire, anzi, da dimenticare rapidamente. Franco Nicastro, suo amico e collega, in un lungo post sulla pagina Facebook "L'Ora edizione straordinaria",  traccia il profilo umano e professionale di Giovanni Spampinato inserendolo nel contesto di una Ragusa refrattaria, capace solo di nascondere le sue tante opacità. Una città che dopo 48 anni non è mutata.
 

 SPAMPINATO, UN DELITTO IN «NOME COLLETTIVO» di Franco Nicastro 

 I nodi cruciali dell’uccisione di Giovanni Spampinato mantengono, a distanza di tanti anni, il loro senso e la loro portata: lo sfondo cupo del delitto, il movente poco chiaro e mai adeguatamente approfondito. Con una lettura riduttiva dei fatti si è tentato, anche nelle sentenze, di circoscrivere il delitto a una dimensione individuale: il cronista testardo e curioso che prende di mira un ragazzo di buona famiglia sia pure dalle amicizie discutibili e che con i suoi articoli suscita una reazione violenta ma comprensibile. Tutto il contrario della narrazione che ne fece subito su L’Ora Mario Genco: un «delitto in nome collettivo», lo definì. Come collettivo e circolare era il concorso di coperture date all’assassino e alle motivazioni ancora oscure del suo gesto. L’uccisione di Giovanni Spampinato il 27 ottobre 1972 non era dunque una storia dominata da fattori personali. La sua lettura non poteva essere separata dal modello professionale del giornale L’Ora che Spampinato aveva trasferito in una realtà periferica. Con lui avevo condiviso un tratto di quella strada. Non avevo ancora vent’anni quando ci eravamo conosciuti nel 1969. Di lui non sapevo quasi nulla: per me era solo un nome che spuntava nelle pagine che ospitavano i nostri articoli. Lui da Ragusa, io da Vittoria. In buona parte conoscevo le sue sensibilità politiche, le sue curiosità culturali, le sue piccole grandi vicende umane. In parte le ho apprese dopo. Dai racconti degli amici ma soprattutto dal bel libro di Alberto Spampinato, che ci ha rimandato il profilo di un giovane del suo tempo nel quale si riflette un’intera generazione: quella che ha attraversato il ’68 oppure ne ha raccolto le spinte ideali, le utopie, le delusioni. Scoprimmo di avere una visione comune della professione e di subire l’omologazione e un sistema di relazioni che in quella parte della Sicilia componevano un’omogenea aggregazione di poteri. Inseguendo la visione alta del giornalismo non potevamo che approdare alla redazione de L’Ora. Lì dove prendeva forma un’informazione così diversa dal cosiddetto “giornalismo d’inchiesta” di oggi, spesso tributario delle fonti. A L’Ora si applicava un modello rovesciato: erano gli altri – gli investigatori, i magistrati, la Commissione antimafia – a prendere semmai spunto dagli articoli che anticipavano i grandi temi del discorso pubblico. Ed era un modello di giornalismo in sintonia con i processi di rinnovamento che in quegli anni attraversavano la grande stampa nazionale (Corriere della sera, Giorno, La Stampa) ma disomogeneo rispetto al panorama dell’informazione siciliana. Attaccava la mafia, denunciava il malaffare, svelava le trame del potere. Per questo L’Ora venne colpito da Cosa nostra con gli attentati e dal potere con le querele. Era inevitabile che anche Giovanni Spampinato diventasse un bersaglio: aveva portato quel giornalismo in una città immersa nella stagnazione politica e culturale. Attardata dal mito di una provincia “babba” risparmiata dalla mafia e criminalità, l’informazione restava legata alla cifra espositiva della cronaca. Questo registro giornalistico venne messo in crisi dal delitto di Angelo Tumino, ex consigliere del Msi, in cui si intrecciavano storie private e collegamenti ombrosi. Quello che ne scrisse con il taglio giornalistico più attento fu Giovanni Spampinato. Fu lui ad alzare il velo sulla figura di Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale e amico di Tumino, che diventerà poi il suo assassino. Sin dal primo momento affiorarono le carenze, le cautele e i limiti di un’inchiesta che la Procura generale di Catania avocò cercando di allargare il raggio d’azione. I processi – conclusi con la condanna a 21 anni ridotta a 14 in appello – non hanno però fatto giustizia né illuminato una verità definitiva se è vero quello che disse il pg Tommaso Auletta durante il dibattimento di appello: «La chiave del delitto Spampinato sta nelle paure di Campria, che non ha sparato per tutto quello che Spampinato aveva scritto sul delitto Tumino ma per tutto quello che non aveva (ancora) scritto sulle trame dei fascisti e sui pericolosi traffici (materiale archeologico, contatti con i contrabbandieri) nei quali erano coinvolti sia Tumino che Campria. Il delitto è una prova di fedeltà a quel mondo». Auletta parlava di trame dei fascisti. E metteva il dito su uno dei temi forti trattati da Spampinato che per L’Ora aveva segnalato i legami locali con ambienti della destra eversiva e le relazioni con il contrabbando, la malavita comune e nuclei di mafia in formazione. Era il tempo della strategia della tensione e la Sicilia era diventata il terreno in cui quella eversione veniva esercitata. Ma questo mondo non venne realmente portato dentro lo scenario del caso Spampinato. Dopo l’uccisione del giornalista, malgrado alcune voci fuori dal coro come quella dei cattolici, prese forma una manovra che mirava a un rovesciamento delle parti quasi che fosse proprio Spampinato ad avere agitato una comunità tranquilla e laboriosa. Lui che, come diceva il titolo dell’Ora, era stato “ucciso perché cercava la verità”. Del resto, rifletteva il mite Auletta, “se non sono questi i compiti dei giornalisti (la ricerca della verità, ndr) allora si possono abolire i giornali”.

sabato 24 ottobre 2020

Elezioni amministrative: bloccare il ruolo della borghesia mafiosa.

Il 22 e 23 Novembre Vittoria, forse (il condizionale col Covid è d'obbligo), andrà al voto. La campagna elettorale è entrata nella sua fase finale. I candidati si stanno confrontando civilmente, non mancano le scintille che infiammano di tanto in tanto il dibattito, ma tutto si sta svolgendo nella regola. La Città attende con ansia un sindaco che la amministri. I due anni di commissariamento lasceranno un'ampia cicatrice nel corpo della città, un solco profondo, difficile da rimarginare. Ho riletto in questi giorni la relazione del Prefetto - quella allegata nel decreto di scioglimento del consiglio comunale firmato dal Presidente della Repubblica - pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 05. 09. 2018. Nel documento emergono alcune delle direttrici dell'espansione del "fenomeno mafioso" in città e con esse la capacità dello stesso di assorbire velocemente consistenza economica e politica. I due anni di commissiariamento non hanno scalfito questo "fenomeno" e lo stesso ha avuto il tempo di mimetizzarsi benissimo. Vittoria, quindi, continua a trascinarsi questa zavorra immateriale, un nemico potente e impalpabilela che è la mafia, nella sua eccezione più mederna e accattivante. I quattro candidati hanno il dovere civile e morale di contrastare con forza questo cancro che nell'ultimo ventennio ha riempito di metastasi ogni settore economico e sociale della città. Quando parlo di mafia non faccio mai riferimento all'organizzazione stracciona e marginale di "deliquenti" rappresentata da personaggi semianalfabeti tanto violenti quanto volgari. Questa, come ho scritto più volte, è malavita organizzata, "facinorosi della classe infima", gente che con le loro azioni violente danno fastidio al potere e per questo viene ottimamente contrastata dagli organi inquirenti. Il fenomeno mafioso a cui mi riferisco è altro, è meno violento, è un sistema fatto di intrecci e relazioni tra imprese, professioni, finanza e istituzioni che decide, per esempio, come investire ingenti somme di denaro prodotte illegalmente nella privatizzazione di un aeroporto, piuttosto che un porto; oppure come e dove costruire un grosso centro commerciale o rilevare, o realizzare, una grande struttura turistica; oppure come modificare un piano regolatore o variare la destinazione d’uso di un’ampia superficie che invece andrebbe tutelata. L’accozzaglia di volgari malavitosi - "deliqunti" appunto - anche se organizzati, non sarebbe in grado di concepire e gestire siffatte delicatezze. Ecco, questa mafia moderna, borghese, imprenditoriale, professionale - delineata anche dalla relazione prefettizia - riesce ancora smuovere interessi? Ha la capacità di incidere sul funzionamento di una campagna elettorale? Riesce ad orientare il consenso e a controllare il voto diventando, di fatto, quel soggetto politico in grado di determinare la vittoria di un candidato rispetto ad un altro? Ho rivisto i dati elettorali delle ultime tre elezioni amministrative. Nel 2006, al primo turno, hanno votato 33 mila persona su 47 mila aventi diritto. Nel 2011, sempre al primo turno, hanno votato 34 mila elettori su 49 mila aventi diritto. Nel 2016, 32 mila su 50 mila aventi diritto (i dati ovviamente sono arrontondati). Risulta evidente come le elezioni amministrative sono un rito sempre meno frequentato, con un terzo degli elettori che praticano lo "sciopero del voto". E' presumibile pensare che anche in questa tornata elettorale - Coronavirus permettendo - un terzo degli aventi diritto al voto (forse col Covid qualcosa in più?) rimarrà a casa. Si può, quindi, ipotizzare che la capacità di mobilitazione elettorale della mafia borghese assumerà un ruolo sempre più determinante nell'elezione di questo o di quel cadidato? I dati, ci raccontano o no di quanto sia indispensabile il ruolo elettorale di certi gruppi? A Vittoria, per non riprecipitare nel baratro, serve o no cominciarne a capire, individuare e raccontare certi movimenti? Dei Ventura, dei Greco, e di tutte le altre famiglie è stata narrata ogni forma di malefatta, di vizio, di interesse. Di questo "fenomeno" invece si è evitato di scrivere pure una breve prefazione: perché? Vittoria deve riconquistare la sua dignità, deve dare speranza alle giovani generazioni, non un speranza fatta di attesa ma di rinascita, e per farlo si deve smascherare, isolare e, se è possibile, schiacciare questo sistema di intrecci e relazioni capace di coordinare conteporanemente l'economia e il consenso. In questo mese abbiamo il dovere di indignarci realmente e mobilitarci di fronte agli inviti e alle affabili sollecitazioni che possono arrivare da questo estabilishment politico economico. Serve uno scatto d'orgoglio, un calcio potente, che allontani la nostra rassegnazione e in grado di mettere a nudo e in difficoltà questo potere trasversale, vellutato e anestetizzante che domina da anni la città. Lo dobbiamo fare perchè Vittoria non precipiti ancora più in basso da dove è stata fatta stramazzare.

domenica 11 ottobre 2020

CHI SI MANGIO' VITTORIA?

 

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Si mangiaru Vittoria”. E’ da tempo che sento passare di bocca in bocca questo rassegnato e laconico commento. Lo dico subito, questa frase  è un pretesto utile a giustificare e a nascondere la nostra indolenza. E si! Perché noi vittoriesi siamo persone ricche di entusiasmo, di protagonismo, spesso spocchiosi, ironici, carichi di una voglia frenetica di lavorare per fare soldi e mettere in bella mostra i nostri beni. Ma tutta questa miscela di esuberanze frana miseramente verso l’ignavia peggiore: NOI NON ESPRIMIAMO MAI UN PARERE CHE ASSOMIGLI LONTANAMENTE AD UNA DENUNCIA, AD UNA CRITICA O AD UN GIUDIZIO SEVERO VERSO QUALSIASI FORMA DI POTERE. Questa è la parte più in ombra, ma più pronunciata, del nostro essere “vitturisi”; siamo spettatori e mai protagonisti (mentre divoravano Vittoria, noi dove eravamo?). Tutto questo non avviene solo per negligenza o per codardia, avviene soprattutto per rispetto. Noi rispettiamo, aduliamo, i potenti, i forti, i vincenti, gli scaltri, "i sperti"; questi, caricati dalle lusinghe e dal consenso, hanno piegato la città (mangiandosela) alla loro smania di potere.  “Chissu ci leva i scarpi o Signuri mentri ca camina” (quello toglie le scarpe a Dio mentre cammina) ed è sottinteso che Dio (u Signuri) non se ne accorge. Infatti Dio non si è accorto come è stata ridotta Vittoria in questi anni. La città è stata sfogliata dei suoi beni come una margherita, poi infangata e umiliata per bene, e in fine messa alla berlina. E a distrarre Dio ci hanno pensato in tanti, pure la chiesa che non ha svolto a pieno il suo compito pastorale e cioè: difendere i deboli, denunciare le ingiustizie, cacciare i mercanti dal tempio e soprattutto svegliare le coscienze. Non ha fatto nulla di tutto questo, anzi, ha assecondato la nostra ignavia e ha scelto di stare in silenzio, favorendo tacitamente le ambizioni di potere dei furbastri. Poi, quando non poteva farne a meno, provava a consolare chi veniva travolto dalle distorsioni e dai problemi generati dalle "feci" di chi si stava "mangiando" Vittoria. 

Se vogliamo bene ai nostri figli non possiamo continuare ad essere un popolo di rassegnati che giustificano la loro negligenza pronunciando con un mezzo sorriso: "si mangiaru Vittoria". Il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano, ma per essere vero cambiamento serve, soprattutto, controllare l'azione amministrativa di chi viene votato. Viceversa Vittoria, dopo che se la sono mangiata, inizieranno a raderla al suolo. 

domenica 27 settembre 2020

Movida, risse e cultura dello sballo. Un trinomio da scomporre

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Le risse nei luoghi della movida vittoriese (e non solo) sono diventate un fatto quasi normale. Sono il modo per concludere in bellezza una serata a base di cocktails alcolici e roba eccitante. E' il metodo per scaricare l'energia accumulata in una bella scazzottata. Basta poco: un complimento fuori luogo ad una ragazza o uno sguardo non condiviso e parte la girandola di pugni, calci, gomitate e colpi di bottiglia. E’ diventato un fatto quasi conseguenziale: non c’è movida senza rissa e non è movida se non c’è una rissa. Attenzione, tutto questo non avviene solo a Vittoria, basta leggere la cronaca regionale e nazionale per capire come le sere dei fine settimana siano caratterizzate - in qualsiasi parte d’Italia - da alterchi, liti e zuffe di ogni tipo e di ogni dimensione. Il massacro di Willy, il giovane di Colleferro, è figlio della movida. Qualcuno allora penserà: eliminiamo la movida? E no! Il problema non è la movida, la questione non è passare la sera in compagnia degli amici, fatto di per se normalissimo oltre che piacevole. NO! La questione è ciò che è stata fatta diventare la movida: una serie innumerevole di distorsioni che hanno alla base l’uso delle droghe e il consumo smisurato di alcool. I dati del SERT ci dicono che in Provincia di Ragusa il consumo di alcool e di droghe, soprattutto nei fine settimana, cresce a dismisura, in particolare l’uso della cocaina. Alcune settimane fa il dott. Mustile, responsabile del Sert di Ragusa, dichiarava: “Se c’è tanta cocaina in giro il problema non è di chi la mette in giro, che commette un reato punito fino a 20 anni di carcere e fa i miliardi; il problema è di chi la chiede, che compone un numero sempre maggiore”. Chi ne fa uso sono persone fragili che vogliono sentirti potenti e la potenza in molti cosi si manifesta diventando violenti, cercando un pretesto per fare a pugni e calci. Ma la miseria di questa illusione non può essere tollerata e non può diventare una regola. C'è bisogno di istituzioni che contrastino seriamente la criminalità che gestisce il mercato della coca (delle droghe in genere) e ne controlla saldamente lo spaccio. Bisogna cominciare a pensare come mettere un freno ad un'area urbana di devianze, dove la legalità, il rispetto delle regole - durante i fine settimana - è di fatto sospesa; dove a dominare non è altro che la logica della massimizzazione del "consumo di prodotti da sballo" resi disponibili e a prezzi abbordabili. Non può prevalere il concetto di riduzione del territorio, in particolare del centro storico, a contenitore di un rapporto mercantile tra "imprenditoria della mala movida" e consumatori di alcool e droghe. Continuare a rimanere immobili significa mortificare gli investimenti e il lavoro di tante piccole attività che hanno ridato luce e vitalità al centro storico e ora si vedono minacciate da una movida malata. Non farlo significa piegare ulteriormente la dignità di questa città al volere di chi la vuole tenere immersa nella disperazione e nel degrado. La cultura dello sballo (se cultura si può definire) oltre ad alimentare economicamente le mafie, sta minando il futuro delle generazioni future di questa terra. Il nulla li sta avvolgendo e in alcuni casi li sta travolgendo come Alessio e Simone, investiti da un suv guidato a folle velocità da una "personaggio" alterato dall’alcool e dalla coca.


domenica 30 agosto 2020

USCIRE DALLE SABBIE MOBILI


Nella rete gira una mappa dell’Italia che indica le peggiori città per ogni regione. In Sicilia la palma d’oro è toccata alla nostra città. Non so quanto sia credibile questa classifica, però, vivendo in questa città, vedo cosa siamo diventati nel tempo. Vittoria è una città che è arretrata economicamente e culturalmente, un luogo nel quale si è spenta lentamente l’energia principale dei vittoriesi: la voglia di fare e di migliorarsi. Basta camminare per le strade per vedere cupezza, tristezza, depressione. Lo si capisce dalle saracinesche abbassate dei negozi, dai “si vende” affissi qua e la nei vari edifici, dalle facce degli individui che guidano suv o passeggiano da soli guardando lo smartphone. Sembra di vivere in un luogo di anime soffocate e connesse nel nulla. Eppure questa era una città che si opponeva democraticamente alle ingiustizie e difendeva i propri diritti. Forse lo faceva in modo chiassoso e arrogante, me era fatto in buona fede, si reagiva e non si accettava di essere declassificati o peggio irrisi. Da tempo il degrado ha preso il sopravvento e con esso è arrivata la rassegnazione. Tutto questo ha accelerato alcuni processi regressivi, in particolare ha disabituato i vittoriesi alla condivisione, al rispetto e alla tutela dei beni comuni. In questo territorio abbiamo sporcato e sfruttato tutto senza provare a ripulire, sistemare e ristrutturare nulla. Il degrado e l’incuria sono diventi la nostra caratteristica. Bisogna interrompere questa tendenza al declino. Vittoria e le sue tante economie sane e dinamiche può e deve ripartire solo se si punta subito ad una gestione migliore e diversa di quei beni comuni che sono i servizi essenziali: rifiuti e acqua. Un territorio sporco, degradato e con problemi di accesso all’acqua rischia di diventare definitivamente invivibile sia sotto il profilo sanitario e sociale.

In questa campagna elettorale stanno emergendo proposte di rilancio della città veramente fantasiose: nuovi impianti sportivi, riedizioni di feste, bus navetta, piste ciclabili, opere di alto valore artistico. Per carità, tutte cose interessanti, ma, a mio avviso, in questo momento, secondarie. Intanto sarebbe il caso che chi propone queste strutture ci dicesse con quali fondi verrebbero realizzate. Si dice che le condizioni economiche in cui versa l’ente comunale non siano per nulla brillanti, anzi tutto il contrario. Se è così non è più serio promettere interventi che rimettano in sesto un territorio? I servizi essenziali: la gestione e la raccolta dei rifiuti, con relativa pulizia del territorio, e la gestione e distribuzione dell’acqua, sono ormai fortemente congestionati da tempo. Per affrontare queste emergenze serve una capacità amministrativa nuova, diversa, che non può essere delegata ai privati e quindi al mercato. Sui bisogni primari di una città non può e non deve gravare nessuna logica del profitto. La classe politica che si sta confrontando democraticamente è chiamata a fare una salto in avanti, deve capire che il degrado chiama altro degrado e che lo stesso alimenta gli istinti e gli interessi peggiori. Viceversa, il miglioramento delle condizioni essenziali genera progresso, favorisce la partecipazione e annulla le spinte deteriori. Solo individuando soluzioni su questi temi di ordinaria amministrazione, Vittoria comincerà ad uscire dalle sabbie mobili in cui è affondata. Tutto il resto, scusatemi, è FUFFA!.

martedì 18 agosto 2020

RAGUSA, QUI LA MAFIA NON ESISTE?

Immagine tratta dalla copertina del libro  "Le subculture mafiose" di Paolo Crinò

C'è chi è ancora convinto che in provincia di Ragusa la mafia sia qualcosa di marginale che si agita in un territorio formalmente sano, un po' come la particella di sodio che si aggira solitaria e disperata nell'acqua minerale, incapace di creare problemi. Ma basta leggere l'ultimo Quaderno dell'Antiriciclaggio, redatto dall'Ufficio di Informazione Finanziaria (UIF) della Banca d'Italia, per avere un quadro completamente diverso rispetto a come questa provincia viene, da molti, immaginata. Qui, più che in ogni altro luogo, la mafia non è fatta da un gruppo di personaggi micragnosi, rozzi e violenti. Per carità, ci sono, esistono, ma hanno un ruolo infimo e truculento. Spesso le loro azioni, tanto rumorose quanto violente, servono a nascondere le immense nefandezze compiute dalla maggioranza silenziosa. Qui la mafia indossa il doppiopetto, parla più lingue e si presenta come un'impresa organizzata e ben capitalizzata. Insomma, è ottimamente mimetizzata nella nostra società ed è capace di alimentare rapporti con ogni tipo di potere. Questo gli ha permesso e gli permette di avere un ruolo di primo piano nel panorama economico criminale siciliano. Per essere più chiaro: in tutta l'area  ragusana, facendo le opportune differenze tra la zona modicana/ragusana a l'area ipparina, negli anni si è sviluppato un sistema relazionale che non ha funzione di mero supporto all'attività criminale, ma è l'aspetto costitutivo del fenomeno mafioso ibleo.  Qui, meglio che in altre zone, si gestiscono e si riconvertono le masse di denaro prodotte illegalmente. I cartogrammi redatti dall'UIF ci raccontano di segnalazioni finanziarie anomale, ricevute da banche e Poste e da soggetti finanziari diversi da banche e Poste. In particolare, quelli pubblicati nelle pagine 12 e 13 del Quaderno (si vedano le immagini allegate) danno indicazioni chiare e inequivocabili. La nostra provincia ricade, nel primo caso (segalazioni banche e poste), nel terzo quartile; nel secondo caso (segnalazioni di soggetti diversi da banche e poste) nel quarto quartile. Siamo tra i primi in Sicilia. Occupiamo le zone più alte della classifica, quelle che esprimono i valori massimi di segnalazioni. 


Questi grafici ci danno due indicazioni. La prima è ovvia: in provincia ci sono tante (forse troppe) operazioni finanziarie sospette. Il dato è confermato anche da una recente classifica redatta nell'ottobre scorso da "Il Sole 24 Ore". Il secondo ci dice come gli istituti più attivi nel segnalare certe "operazioni anomale" non siano le banche. Forse gli istituti di credito non sono più il riferimento principale per certe operazioni? Non è facile da stabilire, ma dal secondo cartogramma emerge come altre strutture, vedi Istituti di pagamento (IP) o gli Istituti di moneta elettronica (IMEL), siano diventati nuovi punti di riferimento. La crescita di incidenza di eventuali operazioni di riciclaggio nel comparto finanziario non bancario, non è avvenuta per caso. Sarà stata "suggerita e guidata" dai soliti, insospettabili, professionisti del settore.  E' forse nata l'esigenza di utilizzare strutture finanziarie meno vigilate ma altrettanto sicure? Forse. E' anche chiaro che le consulenze tecniche nel riciclare somme di denaro prodotte illegalmente, non si limitano al settore finanziario. L'emergenza Covid-19 ha aperto nuove strade per la criminalità economiche. Gli ultimi  report di SRM Studi per il Mezzoggiorno e di The European House Ambrosetti ci raccontano come logistica, grande distribuzione e trattamento rifiuti siano diventate le attività che interessano maggiormente alle mafie. In Provincia di Ragusa le diverse strutture commerciali (mercati ortofrutticoli e centri commerciali vari) vivono e si sviluppano grazie alla logistica e alla distribuzione alimentare e no. Per cominciare a capire l'ambito economico e i suoi volumi d'affari,  su cui l'economia criminale potrebbe riciclare i suoi soldi, basta consultare il sito https://www.reportaziende.it/ragusa. L'altro grande business è la "monnezza". In tutto il territorio ragusano la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, soprattutto quelli urbani, è una necessità pressante e impellente. I fuochi che con periodicità si generano qua è la lungo tutto il territorio ragusano sono l'anticamera di un'emergenza latente. Se questo problema esplode (perché rischia di esplodere) cadranno le ultime regole restrittive e l'affare è fatto.   

Dati, studi, inchieste e analisi ci raccontano una provincia, dove le mafie sono una realtà composita, fatta di soggetti provenienti da varie classi sociali, dalle più infime alle più elevate, che operano in base a scelte razionali e in cui la direzione strategica è nelle mani di soggetti delle classi dominanti. Per dirla come Umberto Santino (Centro di documentazione Peppino Impastato) anche in provincia di Ragusa vi è una "borgesia mafiosa" dinamica, capace di costruire, mantenere e allargare un sistema relazionale entro cui si muovono le organizzazioni criminali con le loro ricche economie illegali. Questa borghesia è in grado, alla bisogna, di essere anche soggetto politico che orienta e determina successi elettorali. E' evidente che per contrastare questa struttura, che controlla in modo e con metodi diversi l'intera provincia, serve una cambio di mentalità e di direzione. E' necessaria una capacità politica nuova, differente, slegata da grumi multiformi e da logge varie. Serve un nuovo modo di fare inchiesta da parte degli organi inquirenti, che non possono guardare solo alcuni territori e ignorare tutto il resto. Bisogna cominciare a raccontare questa terra in modo diverso. Ma soprattutto serve ri-articolare il ruolo dei corpi intermedi, perché qui, più di ogni altro territorio, è stato spezzato il filo tra i bisogni economico-sociali reali e chi di questi bisogni doveva e deve essere interprete e portavoce. Viceversa se continueremo ad attaccare la particella di sodio non ci renderemo conto che l'acqua, apparentemente limpida, è ricca di batteri che hanno e stanno infettando ogni parte del nostro territorio. 





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giovedì 13 agosto 2020

IL FUTURO DELL'AGRICOLTURA.

Il video di Peppe Russo tratto dal suo profilo Facebook 

Ho ascoltato e riascoltato il video di Peppe Russo, giovane “imprenditore” agricolo e futuro agronomo. Da molti è stato percepito come il solito pianto o l'ennesimo grido di allarme. Per altri come un'opportunità da sfruttare elettoralmente. Secondo me è la base del nuovo manifesto politico di questa terra che continua a vedere nell'agricoltura il proprio avvenire. Un futuro diverso, come dice Peppe in un suo passaggio, che punta ad “un prodotto etico”. Le parole di Peppe hanno sollecitato fortemente la mia curiosità. Ho iniziato a raccattare notizie sparse dei diversi fenomeni contemporanei che, per il mio modo di pensare, considero indizi di cambiamenti in atto. In Italia, soprattutto al Sud, sono aumentati gli addetti in agricoltura, principalmente sono giovani, come Peppe, che hanno deciso di investire il loro futuro nella terra e in produzioni meno “intensive” e soprattutto biologiche e rispettose dell'ambiente. Questo mi ha permesso di rilevare come la gioventù, oltre ad essere naturalmente inquieta (guai se non lo fosse), ha cominciato a capire come il tempo sia diventato più esigente con lei. Il tempo è accelerato, il futuro prossimo va a passo di bersagliere, ma non c'è fanfara a battere la cadenza. C’è un angoscia sociale nelle giovani generazioni che li spinge a progettare. La via dell’estero non è più la soluzione ovvia e definitiva. Alcuni hanno capito come sia meglio mettere mano qui invece di fare il cameriere in Inghilterra o il pizzaiolo in Norvegia per vivere (caricandosi di costi di vitto e alloggio) sempre in modo precario. Le parole di Peppe aprono uno squarcio, ci dicono che è in atto una conversione ecologica, etica e virtuosa della nostra agricoltura. La nostra principale economia ha subito e sta subendo forti sciami sismici sia economici che ambientali. Movimenti tellurici che hanno determinato una contrazione dei redditi non più sostenibile. Continuare come si è sempre fatto, essere conservatori di qualcosa che è in coma irreversibile, sperare che tutto torni come un tempo, impedisce di percepire i mutamenti che avanzano ovunque e alimenta la demolizione sociale in atto. La "conversione", come quella di San Paolo, avviene in seguito a caduta. Peppe, nella sua semplicità, ci dice che è tempo di rialzarsi e di riaprire gli occhi. 

Certa “classe politica”, in cerca di varianti, come la legge del profitto, ha percepito la novità che sta nelle parole di Peppe,  e le vorrebbe usare per capitalizzare qualche consenso, riducendole a mera merce elettoralistica. Un comportamento povero politicamente e insensibile culturalmente che dimostra come non sia stato compreso né il senso e né la portata di quelle parole. La rincorsa al consenso personale è così accecante che impedisce di vedere e di non considerare lo stato attuale delle condizioni in cui versa il settore agricolo della fascia trasformata. Un tempo nuovo e sperimentale sta afferrando la gioventù di questa terra, la sta scuotendo e la sta spingendo in ordine sparso a progettare il proprio futuro. Le parole di Peppe ci dicono che bisogna guardare questo insieme come a una profezia in cammino attraverso il brulicare delle loro imprese che vogliono risposte e non banali e temporanee "lisciate di pelo".

sabato 8 agosto 2020

Vittoria, le elezioni e la mafia dimenticata

Immagine tratta da Google

Il 4 ottobre Vittoria andrà al voto. La campagna elettorale, malgrado la parentesi agostana, ha già preso il suo verso, il suo ritmo, la sua velocità. I candidati si stanno confrontando civilmente, non vi sono, e spero non vi siano, quelle scintille che spesso hanno infiammato e infiammano scontri cruenti che mettono in secondo piano le questioni vere del territorio. Vittoria, in questa fase storica, non ha bisogno di divisioni laceranti. Prima lo scioglimento e poi i due anni di commissariamento lasceranno una cicatrice, “un solco lungo il viso” della città, troppo difficile da rimarginare. Vittoria ha avuto e continua ad avere una solo nemico, potente, silenzioso e accattivante: le economie mafiose e i suoi satrapi. I quattro candidati rimasti a confrontarsi hanno il dovere civile e morale di contrastare con forza questo cancro che ha riempito di metastasi ogni settore economico e sociale della città. Qui, in questa terra, le mafie sono diventate un soggetto politico capace di influenzare l’opinione pubblica e anche di determinare certe scelte. E’ chiaro che quando parlo di mafie non faccio riferimento ai personaggi che riempiono le cronache dei giornali, di cui non vale la pena neanche fare i nomi (tanto sappiamo tutti chi sono). Quella è “la mafia cenciosa e miserabile", fatta di persone schiacciate e abbrutite soprattutto dal loro modo di esercitare e di subire ogni tipo di violenza. Io parlo dell’altra mafia, quella “seria” e meno violenta, fatta di intrecci e relazioni che possono nascere dentro eleganti studi professionali o nei lussuosi uffici di qualche banca, dove tra un quadro e un litografia d’autore trovi in bella mostra la foto di Tony Gentile, quella di Falcone e Borsellino. Li si decide, per esempio, come gestire o privatizzare un aeroporto, piuttosto che un porto; oppure come e dove costruire un grosso centro commerciale o rilevare e o realizzare una grande struttura turistica; oppure come modificare un piano regolatore o variare la destinazione d’uso di un’ampia superficie che invece andrebbe tutelata. Ecco, questa mafia produce politica, ha la capacità di incidere sul funzionamento di una campagna elettorale, riesce ad orientare il consenso e controllare il voto, diventando, di fatto, quel soggetto politico capace di determinare la vittoria di un candidato rispetto ad un altro, per poi, con calma, passare all'incasso. Le elezioni amministrative sono un rito sempre meno frequentato, con un terzo degli elettori che praticano lo sciopero del voto, quindi la capacità di mobilitazione di questo soggetto assume un ruolo sempre più utile e determinante. E’ forse questo il motivo per cui di questa mafia, (presente a Vittoria come a Modica, a Ragusa, ...) nessuno ne parla? Nessuno ne scrive? Si evita di conoscere o di nominare gruppi, nomi, cognomi e sopranomi. E’ una mafia dimenticata, di cui e meglio perdere subito, sia per paura che per convenienza, memoria e cognizione. E' invece, è di questa mafia che bisogna cominciare a parlare Per conoscerla meglio, stanarla, per capire i suoi movimenti e con chi si è schierata. Dei Ventura, dei Greco e di tutte le altre famiglie è stata giustamente narrata ogni forma di vizio, di interesse e di malefatta. Di questa si è evitato di scrivere pure una breve prefazione: perché?

Non serve più essere un normale osservatore, sento il dovere di accostare avvenimenti e fatti che mi circondano. Non ho analisi né tesi da proporre, ma in questa campagna elettorale avrò modo di avvertire impressioni e ascoltare ciò che verrà raccontato. Tutto verrà messo nero su bianco per evitare che tutto venga "continuamente dimenticato”.