Qualche
giorno fa i sindaci del Sud Est siciliano, i presidenti dei consigli
comunali e una delegazione del comitato anticrisi si sono incontrati
a Vittoria per predisporre strategie comuni a sostegno del comparto
agricolo. Chi era presente racconta di una “parziale
soddisfazione” per le iniziative intraprese dalla Regione. La
definizione, nei fatti, nasconde una evidente delusione. La
“soddisfazione” appaga, fa cessare ogni sensazione dolorosa. Di
contro, la parola “parziale” indica qualcosa di incompleto o
peggio un atteggiamento che tende a favorire una parte a danno di
un'altra. Quindi, la “parziale soddisfazione” nasconde una
indubbia amarezza, altrimenti che senso avrebbe continuare ad
organizzare la protesta?
Mentre
c'è chi cerca di domare lo sconforto, provando a decodificare le
impalpabili proposte della Regione, nel territorio si sviluppano - da
tempo e silenziosamente - preoccupanti dinamiche. I dati della Camera
di Commercio di Ragusa sono inequivocabili. Al 31 dicembre del 2013,
nei territori di Acate, Comiso, Santa Croce Camerina e Vittoria
operavano 5510 imprese agricole. Dopo quattro anni, cioè al 31
dicembre 2017, in questa fetta di provincia, le imprese agricole
operanti sono diventate circa 4100. Le crisi, in 48 mesi, hanno
divorato 1400 attività. Il dato, significativamente allarmante,
non va preso solo per la misura che indica ma ci racconta
qualcos'altro. Infatti, secondo l'Istituto Nazionale di Economia
Agraria (INEA) alle 1400 cessazioni non è seguita una riduzione
della SAU (Superficie Agricola Utilizzata). Cioè, sono scomparse
1400 imprese, ma la terra di chi si è cancellato continua ad essere
coltivata!! E da chi? E I titolari delle imprese cessate cosa sono
diventati? Mezzadri o braccianti nella loro ex proprietà? E per
conto di chi? Nel silenzio più totale stiamo assistendo al ritorno
del feudo, del latifondo?
Forse
quello che è accaduto, è che sta accadendo, è una sorta di pulizia
etnica.? C'è una strana convinzione che serpeggia nel territorio: le
crisi di prezzo alla produzione che si sono succedute in questi anni,
hanno colpito, quasi esclusivamente, le piccole aziende; le stesse,
via via, si sono indebitate con i fornitori, con le
banche e lo Stato. Diversi produttori, non avendo oramai nessuna
disponibilità finanziaria per reimpiantare serre e coltivazione,
hanno "ipotecato" in vari modi le loro attività. Le crisi
di mercato hanno completato l'opera. Infatti, con i prezzi alla
produzione dell'ortofrutta schiacciati verso il basso, molti piccoli
produttori "incapaci" a rientrare dai debiti, si sono visti
costretti a svendere le loro aziende a "imprenditori capaci"
già pronti a rilevarle. Quest'ultimi oltre ad essere forti
finanziariamente, oltre ad avere solidi legami politici e
istituzionali, hanno anche acquisito una certa abilità nel
commercializzare e trasformare i nostri prodotti ortofrutticoli.
Se
queste ipotesi hanno un fondamento, è evidente come l'agricoltura
della fascia trasformata, e più complessivamente quella del
Mezzogiorno, si trovi a un bivio: accettare supinamente il ritorno
del latifondo, oppure reagire civilmente a questa logica che trova
ampio sostegno nei fondi comunitari (Piano di Sviluppo Rurale)
favoriti e gestiti dalla Regione Sicilia (la stessa che promuove i
tavoli anticrisi).
Se
la situazione è questa, serve una profonda riorganizzazione del
settore. Serve una maggiore coscienza da parte dei produttori, oramai
troppo rassegnati alla loro fine. Pare, senza voler essere
pretestuoso e diffidente, che certa protesta, generica e
istituzionalizzata, sia fin troppo funzionale allo sviluppo del neo
feudalesimo. Se tutto è così, allora serve uno spontaneismo
diverso, capace di guidare democraticamente il comparto, capace di
produrre riforme che lo rilancino. La storia ci fornisce un modello:
i fasci siciliani. Forse è venuto il momento di attualizzare
quell'esperienza di riscatto civile, sociale ed economico.
Naturalmente rivendendola, adeguandola e correggendola ... per
evitare certi errori.