Le
braccia di
Titta sono
morte pochi giorni
fa. Appena
l’ho saputo ho pianto come un bambino. Ci
conoscevamo
sin
da quando eravamo
ragazzi.
Quelle
braccia,
per
oltre quarant’anni - sia
col
caldo
afoso
sia
col
freddo che
taglia le ossa
-
si
alzavano ogni
giorno all’alba per
montare
serre, per
stendere
plastica, per
guidare
il trattore, per
raccogliere
pomodori e melanzane,
per
scartare
e
sistemare
l’ortofrutta in cassette di legno
o di
cartone,
per
caricare le
cassette
sul furgone e per guidare lo stesso verso il magazzino dove vendeva
la sua produzione. Quelle
braccia si agitavano in modo rabbioso ma rassegnato quando il prezzo
del suo prodotto non
riusciva
a coprire
i
costi della
campagna, e
poi,
quando
tornava a casa,
assumevano
un posizione composta; perché
i
problemi, tutti i problemi, dovevano rimanere fuori dalla porta.
Tutto
questo le
braccia di Titta lo hanno fatto per
quasi
mezzo secolo,
fermandosi solo
per
mangiare, per
dormire e
ogni tanto per santificare le feste.
Dopo l'obbligo di quelle soste, le sue braccia e
tutto il suo corpo
ripartivano con più lena di prima: c’erano
i debiti da onorare, i
dipendenti
da pagare, i fornitori da saldare.
Ora
le braccia di Titta sono incrociate dentro una bara e le mani rugose
e tatuate
dalla “suzzura” stringono una corona di
rosario.
Titta
è
morto: è
stato divorato
dal
cancro.
Pochi
mesi
fa, quando
gli diagnosticarono il male, le
sue braccia non si scomposero, come se già sapessero cosa stava
devastando
quel
corpo. Prima
per
lui contava solo il lavoro, dopo
aver scoperto la sua malattia si rese conto quando importante
fosse
l’ambiente in cui le sue braccia faticavano.
Ci
siamo incontrati prima dell’estate e ridendo
mi
disse: “Non
ho
mai fumato una
sigaretta ma
il tumore mi è venuto lo stesso”. Quella
battuta, apparentemente banale, celava una presa di coscienza. Titta
aveva
compreso
come l’aria
che respiriamo, ciò
che mangiamo, i
luoghi
dove
viviamo e lavoriamo
sono
carichi di germi che seminano
questa
peste. Aveva
capito che rassegnarsi
al
degrado ambientale ci
ha impedito di
percepire
da dove arriva il male.
E’
tempo di dirlo forte e chiaro:
il
nostro modello produttivo è
arrivato
al capolinea: non
crea
reddito
ed
è
pure malsano.
Va
modificato profondamente. Troppi
Titta ci stanno lasciando in modo tragico e doloroso.
Si
è aperto un dibattito su una proposta che
ha una sua
validatà:
istituire lungo
la fascia trasformata
il parco serricolo. E’
venuto il tempo di lavorare a questo progetto,
perché,
come scrisse Nicola
Cipolla, “...non
si può essere ambientalisti senza porsi il problema di un mutamento
produttivo ed energetico, premessa per un mutamento della struttura
economica e sociale in senso democratico e partecipativo”.
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