Visualizzazioni totali

sabato 7 settembre 2019

Ciao Titta.



Le braccia di Titta sono morte pochi giorni fa. Appena l’ho saputo ho pianto come un bambino. Ci conoscevamo sin da quando eravamo ragazzi. Quelle braccia, per oltre quarant’anni - sia col caldo afoso sia col freddo che taglia le ossa - si alzavano ogni giorno all’alba per montare serre, per stendere plastica, per guidare il trattore, per raccogliere pomodori e melanzane, per scartare e sistemare l’ortofrutta in cassette di legno o di cartone, per caricare le cassette sul furgone e per guidare lo stesso verso il magazzino dove vendeva la sua produzione. Quelle braccia si agitavano in modo rabbioso ma rassegnato quando il prezzo del suo prodotto non riusciva a coprire i costi della campagna, e poi, quando tornava a casa, assumevano un posizione composta; perché i problemi, tutti i problemi, dovevano rimanere fuori dalla porta. Tutto questo le braccia di Titta lo hanno fatto per quasi mezzo secolo, fermandosi solo per mangiare, per dormire e ogni tanto per santificare le feste. Dopo l'obbligo di quelle soste, le sue braccia e tutto il suo corpo ripartivano con più lena di prima: c’erano i debiti da onorare, i dipendenti da pagare, i fornitori da saldare.
Ora le braccia di Titta sono incrociate dentro una bara e le mani rugose e tatuate dalla “suzzura” stringono una corona di rosario. Titta è morto: è stato divorato dal cancro. Pochi mesi fa, quando gli diagnosticarono il male, le sue braccia non si scomposero, come se già sapessero cosa stava devastando quel corpo. Prima per lui contava solo il lavoro, dopo aver scoperto la sua malattia si rese conto quando importante fosse l’ambiente in cui le sue braccia faticavano. Ci siamo incontrati prima dell’estate e ridendo mi disse: “Non ho mai fumato una sigaretta ma il tumore mi è venuto lo stesso”. Quella battuta, apparentemente banale, celava una presa di coscienza. Titta aveva compreso come l’aria che respiriamo, ciò che mangiamo, i luoghi dove viviamo e lavoriamo sono carichi di germi che seminano questa peste. Aveva capito che rassegnarsi al degrado ambientale ci ha impedito di percepire da dove arriva il male.
E’ tempo di dirlo forte e chiaro: il nostro modello produttivo è arrivato al capolinea: non crea reddito ed è pure malsano. Va modificato profondamente. Troppi Titta ci stanno lasciando in modo tragico e doloroso. Si è aperto un dibattito su una proposta che ha una sua valida: istituire lungo la fascia trasformata il parco serricolo. E’ venuto il tempo di lavorare a questo progetto, perché, come scrisse Nicola Cipolla, “...non si può essere ambientalisti senza porsi il problema di un mutamento produttivo ed energetico, premessa per un mutamento della struttura economica e sociale in senso democratico e partecipativo.


Nessun commento:

Posta un commento