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sabato 30 aprile 2022

PIO LA TORRE, UCCISO PER TUTTA UNA VITA.

Foto tratta da Google Immagini

40 anni fa la mafia uccideva Pio La Torre, un dirigente prima sindacale e poi politico che aveva compreso sin da ragazzo come la criminalità organizzata non fosse esclusivamente un problema di ordine pubblico, ma era, prima ancora, un'organizzazione economica che godeva di forti complicità istituzionali. In una delle sue ultime interviste dichiarava sorridendo e con  semplicità: "... bisogna spostare l'asse dell'azione preventiva e repressiva da quello che è stato l'andamento tradizionale: inseguire i "poveracci" ... e invece concentrare la nostra attenzione sull'illecito arricchimento, perché la mafia ha come fine l'illecito arricchimento. E' li che dobbiamo mettere i riflettori ...". 

La battaglia contro l'istallazione dei missili Cruise a Comiso fu la forza risultate  di tutta la sua azione politica. Pacifismo, lotta alle econome mafiose e lotta per uno sviluppo del territorio in modo equo e sostenibile. In nome di questi tre principi portò a Comiso oltre 100 mila persone di varia estrazione politica, culturale e religiosa. Era riuscito, insieme al PCI siciliano, a costruire un blocco capace di mettere a nudo verità scomode. Era diventato definitivamente pericoloso, andava eliminato con urgenza. La mattina del 30 Aprile del 1982, poco prima delle 10, lui e Rosario Di Salvo (un dirigente politico prima ancora che autista di La Torre) verranno ammazzati dalle raffiche di un fucile mitragliatore Thompson, arma in dotazione all'esercito degli Stati Uniti. Si disse subito che fu la mafia ad uccidere la Torre e Di Salvo. Un giovane giudice istruttore, il dott. Giovanni Falcone, diede un'interpretazione diversa di quell'omicidio che provava ad aprire una lettura difforme e nuova: "Omicidi come quello di Pio La Torre sono fondamentalmente di natura mafiosa, ma al contempo sono delitti che trascendono le finalità tipiche di un'organizzazione criminale, anche se del calibro di cosa nostra. Qui si parla di una situazione in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre un retroterra di segreti e di inquietanti collegamenti".

Dopo 40 anni lo storico Enzo Ciconte, in un  articolo pubblicato pochi giorni fa sul blog di Attilio Bolzoni "Domani Blog Mafie" (allegato di seguito), ci racconta di un documenti che mette in luce e fa emergere una parte di questo "retroterra di segreti e di inquietanti collegamenti" di cui parlava Falcone.  Vi invito a leggerlo. Buona lettura.


Il documento segreto dei servizi sull’omicidio La Torre: silenzi e omissioni di Stato.

di Enzo Ciconte


Le indagini per  l’omicidio di Pio La Torre, deputato e segretario regionale del Partito comunista italiano (Pci) della Sicilia, ucciso assieme a Rosario Di Salvo, lo si capì subito, si rivelarono difficili e complicate a cominciare dalla stranezza delle armi di provenienza militare.

Sulla sua uccisione si è scritto molto. Eppure, dopo tanti anni succede di trovare delle carte inedite che aprono un nuovo scenario. Ho scoperto tra i fondi dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma un documento di 31 pagine con un titolo inequivocabile: Mafia: omicidio Pio La Torre. A distanza di due settimane dall’assassinio, il 17 maggio, l’allora direttore del Sisde (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), Emanuele De Francesco, lo inviò al presidente del Consiglio Spadolini e al ministro dell’Interno Rognoni.  

Quando, qualche mese dopo, De Francesco riceve da Chinnici, giudice istruttore del Tribunale di Palermo, la richiesta di fornire notizie sull’omicidio La Torre, risponde che «il Sisde non è in possesso di elementi per l’identificazione degli autori dell’omicidio dell’on. Pio La Torre o per l’individuazione del possibile movente». Anche un altro ufficiale del Sisde, Bruno Contrada, all’epoca coordinatore dei centri Sisde della Sicilia, interrogato durante il processo La Torre, dichiara di «non essersene mai occupato». Ricavo le due notizie dal libro di Paolo Mondani e Armando Sorrentino Chi ha ucciso Pio La Torre?, edito da Castelvecchi nel 2012. Quella di De Francesco è una dichiarazione non veritiera, come non veritiera è quella di Contrada. Alla magistratura si poteva mentire perché, secondo questi due poliziotti di razza, funzionari apicali del Sisde, i magistrati dovevano essere tenuti fuori dalle informazioni in loro possesso quasi fossero un corpo estraneo.

IL DOCUMENTO SEGRETO

Il documento che De Francesco invia a Spadolini è identico a quello trasmesso a lui solo pochi giorni prima da Contrada. Dunque ci sono due testi: quello del 17 maggio che è quello ufficiale, e l’altro del 13 maggio che è indirizzato al direttore del Sisde. Lo scritto di Contrada, però, ha il frontespizio oscurato. Ancora oggi, a distanza di 40 anni, ufficialmente permane il segreto, o mistero che dir si voglia, su chi sia questa fonte che oggi sappiamo essere quella del Sisde di Palermo perché lo ha rivelato Contrada. Perché tenerla ancora segreta?

Ma l’elemento che rende particolare, anzi unico, il documento firmato da De Francesco è il fatto che, annotati a margine ci sono commenti a dir poco singolari che in ogni caso sono molto utili perché svelano un pensiero: ridimensionare l’impegno e l’importanza di La Torre. Chi è l’autore di queste annotazioni a matita? Non si sa. Si possono avanzare delle ipotesi. Potrebbe essere lo stesso direttore che, dopo aver mandato ufficialmente il testo di Contrada, mette nero su bianco il suo pensiero, oppure qualcuno di grado molto elevato perché ha la possibilità di visionare e di annotare un testo di quel tipo.

Le cose più interessanti sono le annotazioni a margine, proprio perché esse ci consentono di far emergere la singolarità del documento. Nella parte descrittiva dei moventi dell’omicidio è detto che una delle cause è la “promozione di una estesa e incisiva campagna politica contro la installazione della base missilistica a Comiso”. Poco dopo questo giudizio troviamo la seguente valutazione: “Egli era divenuto il simbolo della lotta antimafia, non solo nell’ambito del suo partito ma anche in tutti gli altri ambienti cittadini”. A matita, un commento lapidario: Sarà!

È un’affermazione sorprendente perché fa a pugni, tra l’altro, con quanto è detto subito dopo circa l’impegno antimafia del dirigente comunista. «È opinione diffusa in questa città che l’on. La Torre avesse quasi personalizzato il problema della mafia, ne avesse fatta una ragione di vita». Vero, La Torre ne aveva fatto una ragione di vita, ma non aveva “personalizzato” il suo impegno quasi fosse una sua ossessione o questione personale. Tanto è vero che «molti, anche in ambienti qualificati» ritenevano che la stessa campagna contro la base di Comiso fosse «utilizzata per l’obiettivo primario della lotta alla mafia». In modo corretto il documento del Sisde precisa che «negli ultimi due mesi l’attività dell’on. La Torre tendente a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della mafia in Sicilia ed a far sì che divenisse una questione nazionale si era vieppiù intensificata e pubblicizzata». 

E allora davvero è incomprensibile quel Sarà! che stride con tutto il resto dello scritto e stride ancor più con l’eco e la risonanza nazionale che l’omicidio ha provocato in tutti gli ambienti. Basti seguire la reazione della stampa di quei giorni per averne una conferma. A Emanuele Macaluso, qualche giorno prima La Torre aveva detto: »Adesso tocca a noi», non immaginando quanto avesse drammaticamente colto nel segno, né tanto meno che potesse essere lui la vittima. Per capire quello che è successo bisognava guardare sia al rapporto mafia-politica sia a quelle che accadeva fuori della Sicilia. È un omicidio italiano non solo siciliano.

LA MATITA DEL DISCREDITO

I giornali mettono in relazione l’uccisione di La Torre e l’arrivo di dalla Chiesa a Palermo come prefetto della città. Di dalla Chiesa si occupa anche il documento firmato da De Francesco. «Non è infine da sottovalutare anche l’opinione piuttosto diffusa in città che nella designazione» del generale dalla Chiesa a Prefetto di Palermo, notizia che aveva allarmato mafiosi e ambienti contigui alla mafia, «avesse avuto una parte determinante anche l’on. Pio La Torre». Commento con la solita matita: «Bah! Tesi poco credibile».

Che senso ha una simile postilla? Era noto, e pubblicizzato sulla stampa, che il 3 marzo Ugo Pecchioli, Pio La Torre e Rita Costa, la vedova del giudice Costa assassinato dalla mafia, erano andati da Spadolini per presentargli proposte sulla lotta alla mafia che avevano elaborato dopo che una delegazione di parlamentari comunisti s’era recata in Sicilia incontrando varie personalità e magistrati. Nel fondo Pecchioli custodito presso la Fondazione Gramsci di Roma, c’è un’ampia documentazione delle proposte avanzate. Pochi giorni dopo il Governo nomina dalla Chiesa prefetto di Palermo. Era evidente che c’era una relazione, o diretta o indiretta, con quell’incontro.

Che La Torre e dalla Chiesa si conoscessero sin da quando La Torre era dirigente sindacale a Bisacquino, che si stimassero e non nascondessero la loro amicizia, e si frequentassero era cosa nota e risaputa. Tra l’altro, il Sismi ha pedinato la Torre per tre decenni, pedinamento che terminò una settimana prima che fosse ucciso. Pura coincidenza? Oppure il pedinamento fu di proposito abbandonato per non essere testimoni di quello che, si sapeva, sarebbe accaduto?

Ancora un giudizio interessante nel documento di De Francesco secondo cui «l’omicidio sia stato perpetrato alla vigilia dell’arrivo a Palermo del nuovo Prefetto» e che l’azione criminale «sia stata fatta eseguire, da chi l’ha demandata, con voluta eclatanza intimidativa». Con la solita matita, un commento non facilmente decodificabile: «Conoscendo l’uomo come lo conosce la Mafia non è molto verosimile».

Due ultime annotazioni è utile segnalare. La prima riguarda un forte disprezzo verso i politici. All’idea di istituire una commissione parlamentare di vigilanza contro il crimine organizzato c’è la solita matita che precisa «lascerei i politici fuori!». La  commissione avrebbe dovuto vigilare quando «operazioni finanziarie o procedure d’appalti appaiono legate alla mafia»; il commento a matita non si fa attendere: «soprattutto per questi motivi escluderei i politici». Infine, quando si accenna alla possibile modifica dell’art. 416 del codice penale, inserendo il bis con il reato di associazione mafiosa, la postilla a matita è: «(Associazione per delinquere). Si, ma quale? (forse per la parte che riguarda la permanente colleganza tra gli associati?)». Evidentemente sfuggiva la portata dell’innovazione dirompente della legge.

SOLO E SEMPRE LA MAFIA

Il documento Contrada-De Francesco, (a giusta ragione si potrebbe definirlo così), ha un limite di fondo: suggerisce che gli autori del crimine siano solo mafiosi violenti assetati di sangue. In nessun conto sono tenute le denunce di Pio La Torre sul ruolo del banchiere Michele Sindona e dei suoi molteplici legami mafiosi e finanziari con politici in Sicilia e a livello nazionale, l’individuazione del pericolo di una struttura parallela della Nato, illegale, che all’epoca non aveva un nome e che poi avremmo imparato a chiamare Gladio, la sottolineatura della nuova strategia della mafia e del ruolo di Vito Ciancimino nella Dc diventato più potente dopo l’uccisione di Michele Reina. Solo coppole e niente altro sembra suggerire quello scritto del Sisde.

Nelle carte della Fondazione Gramsci c’è il documento finale del IX congresso regionale del Pci siciliano, l’ultimo a cui partecipò La Torre che nella sua relazione sostenne che «gli omicidi politici compiuti dal terrorismo mafioso in Sicilia nel ‘79 e nell’‘80 non possono essere esaminati come singoli episodi» perché, invece sono “sequenze allucinanti” collegate tra di loro: gli omicidi di Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Reina, Costa.

Nel documento del Sisde c’è scritto invece che questi omicidi «trovano origine e conclusione in ambienti e fatti di mafia», per cui non c’è spazio per un interrogativo che pure aveva posto La Torre per gli altri omicidi e che ora tornava ancora più stringente dopo la sua morte: siamo sicuri che solo e soltanto di mafia si tratti? E siamo sicuri che non ci sia una «matrice politica», quella già individuata da La Torre in un’intervista al “Mondo” del 26 ottobre 1979 già solo per i delitti di Reina, Giuliano e Terranova e che diventava più attuale proprio dopo gli omicidi che precedevano il suo?

Coppole certo, non si discute, ma qualcosa di più e di molto più grande doveva pur esserci per capire il senso dell’omicidio La Torre.

sabato 16 aprile 2022

LA DIA IGNORA LE ECONOMIE MAFIOSE?


Dopo un po' di tempo ritorno a scrivere su questo mio diario telematico. Ciò che mi ha spinto a mettere nero su bianco è l'ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia e in particolare il rapporto sulla criminalità organizzata in provincia di Ragusa (https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/wp-content/uploads/2022/03/Relazione_Sem_I_2021.pdf). 

Leggendo le tre pagine (117-119) che riguardano il territorio ibleo ho avuto la sensazione come se le mafie fossero presenti e organizzate soltanto ad Acate, Comiso, Vittoria - dove la "stidda è ben radicata"- e Scicli,  dove permane l'influenza del clan Mormina classificato come una propaggine del gruppo mafioso catanese dei Mazzei. Tutto il resto della provincia, leggendo sempre le tre pagine, pare poco contagiata o sostanzialmente immune alle logiche e agli interessi economici della criminalità organizzata. E' come se le mafie, che hanno attraversato le Alpi e gli oceani, infettando le economie di interi continenti, avessero avuto paura a scalare i costoni dell'Altipiano Ibleo. Negli altri centri c'è solo spaccio e consumo di droghe? Solo e soltanto nella quotidianità che si riproduce nella società ipparina e sciclitana si propagano gli affari e le tresche della criminilità? Oppure c'è qualcosa anche nelle altre realtà però non si riesce a far emergere? Onestamente devo dire che se è questo il livello di conoscenza che un'istituzione investigativa come la DIA ha del nostro territorio c'è da preoccuparsi. Tutto è ricondotto all'aspetto criminale più basso, quello cioè che fa riferimento agli atti delinquenziali canonici (furti, risse, spaccio, gestione della prostituzione). Tutti reati esercitati in modo organizzato, capaci di concentrare l'attenzione delle forze dell'ordine su questi territori, ma sono sempre atti che presentano una valenza criminale scadente. Nella relazione si parla ancora di "stidda" quando verosimilmente la stessa oramai è stata da tempo assorbita e i suoi (ex) esponenti, probabilmente, sono diventati il bracciantato di mafie più organizzate e strutturate che puntano ad egemonizzare, o egemonizzano già, le economie del territorio. Invece, per quanto riguarda il riciclaggio delle masse di denaro prodotte illegalmente non vi è nessuna traccia. E' come se questo reato non esistesse. Eppure nei quaderni dell'Ufficio d'Informazione Finanziaria  (UIF) redatti della Banca d'Italia, la nostra provincia da questo punto di vista risulta essere molto attiva.  Forse queste pubblicazioni non vengono considerate? Anche i dati sulle tossicodipendenze in provincia sono significativi e posso fornire spunti interessanti. In un convegno tenutosi a Vittoria poche settimane fa, organizzato dalla CGIL, Libera e dall'ASP di Ragusa è emerso un dato tanto preoccupante socialmente quanto inquietante economicamente. In  provincia di Ragusa, su una popolazione di 320 mila abitanti, 40 mila persone fanno uso di droghe; cioè il 13% della popolazione (https://www.ragusaoggi.it/droghe-e-dipendenze-il-caso-ragusa-su-320-mila-residenti-in-provincia-sono-2914-i-tossicodipendenti-monitorati-dal-sert/).  Ognuno di questi 40 mila spende in media €10,00 al giorno per "sballarsi". Facendo un semplice calcolo, in un mese le mafie iblee incassano (40.000 x €10,00 x 30)  €1.200.000,00. In un anno €144.000.000,00 (centoquarantaquattromilioni di euro). Questa massa di denaro, che si produce solo nella nostra provincia, dove finisce? O meglio: dove viene reinvestita? Rimane tutto in zona o in parte va fuori? Gli istituti finanziari, i professionisti e le imprese che operano in questa terra, hanno un ruolo nel digerire, o meglio, riciclare queste somme? Ad onore del vero la relazione della DIA proverebbe a dare una piccola risposta. Infatti, verso la fine, nell'ultimo capoverso del rapporto, si parla di infiltrazioni delle mafie nelle economie "pulite". Però si fa, come sempre, riferimento solo al Mercato ortofrutticolo di Vittoria. Ma il mercato è una struttura che da decenni è sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti. Soltanto una mafia balorda può essere interessata solo ed esclusivamente a questa struttura economica. Facendo una piccola ricerca sul sito https://www.reportaziende.it/ricerca-geografica-comuni-italiani, tirando fuori e poi sommando i fatturati relativi all'anno 2020 delle aziende più importanti che operano rispettivamente nei comuni di Acate, Comiso, Scicli e Vittoria (territori che secondo la DIA sono ad alta densità mafiosa), il risultato che si ottiene non supera i 510 milioni dii euro di volume d'affari. Viceversa, la somma relativa ai fatturati delle aziende più significative che operano nelle città "immuni" è di 1.875 milioni euro (quasi due miliardi di euro). Chi deve riciclare soldi sporchi, lo fa in un territorio economicamente poco brillante e soprattutto in una struttura che è sotto la ciclica attenzione delle forze di polizia? Oppure, non è più logico pensare che chi deve riciclare cerca di impiegare questi capitali in aree finanziariamente più dinamiche e, in primo luogo, poco controllate dagli inquirenti?

Se alla DIA è attribuita la funzione di prefigurare, attraverso l'analisi, l'evoluzione dei fenomeni criminali in modo da orientare gli investigatori verso un efficace contrasto alle criminalità organizzate, leggendo le sue relazioni si percepisce tutt'altro. Questi rapporti sono oramai anacronistici. Non tengano conto delle evoluzioni che la criminalità organizzata ha avuto nel tempo e descrivono, con un copia e incolla ripetuto nel tempo, sempre e solo le solite realtà. E' come se le mafie fossero qualcosa di cristallizzato e di immobile, quando invece sono l'esatto opposto. Queste relazioni ci dicono che lo Stato è capace di avversare la criminalità spicciola, quella che disturba, che crea problemi di ordine pubblico. Viceversa, per le economie mafiose che stanno avvelenando e impoverendo la nostra terra o non si hanno i mezzi oppure (questo sarebbe grave) non si ha la voglia di contrastarle.