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mercoledì 30 agosto 2017

Dove sguazzano le mafie?


Franco Assenza pochissimo tempo fa ha pubblicato un post particolarmente singolare su Facebook :“Capannoni case auto in fiamme corti circuiti e motorini guasti cose da squalo e piazza pulita”. Cosa intendeva dire? Forse, in questo periodo agostano, ci sono stati incendi dolosi? Capannoni? Auto di grossa cilindrata? E di chi? Sarebbe interessante capire se è successo qualcosa, e se è successa perché non è emersa? Altra cosa interessante in questo scorcio di fine estate è l'articolo di Paolo Borrometi pubblicato qualche giorno fa sul suo giornale online laspia.it. Un pezzo lungo e articolato che si apre con la frase di un collaboratore di giustizia che sta deponendo al processo che si sta tenendo a Ragusa: “A Vittoria non c'è bisogno che i clan fanno estorsioni, sono gli imprenditori che cercano i clan per pagare e mettersi in regola”. Un post e un articolo e in mezzo tanto silenzio. Troppo silenzio. Solo silenzio.  Con poche parole chiare e inequivocabili, si dice che un pezzo di questa città vuole la mafia, ma non perché la stessa fa “scantari”, NO, la mafia si vuole perché da sicurezza e la sicurezza è l'anticamera del piacere. Infatti, ciò che piace va tutelato, va difeso, va protetto, non va accusato o incriminato. E' forse per questo che molti minimizzano e dicono che la mafia non c'è? Negare per difendersi e per proteggersi da una colpa evidente? Di fronte a questa eventuale condizione la società civile vittoriese, l'associazionismo antimafia, i club, gli indignati, dove sono? Sono forse chiusi nel loro perbenismo e nella loro esclusività?
In una società come la nostra sempre più liquida ed economicamente sempre più povera, dove le poche strutture sociali organizzate non si pongono più il problema di come contrastare i "fenomeni anomali", dove l'incertezza economica è la regola, l'imprenditoria mafiosa - carica di capitali da reinvestire - si può permettere di sguazzare da un luogo ad un altro senza problemi. L'economia criminale è diventata una risorsa, una delle poche certezze finanziarie di questa terra ed è per questo che imprese, professionisti e certa politica si sono messi a sua disposizione? A parole tutti contro la mafia nei fatti c'è chi partecipa al ricco banchetto che mette insieme morale pseudo cristiana e capitali mafiosi? Queste domande trovano risposta (si attendono conferme) nelle dichiarazioni dai pentiti riportate da Borrometi.  C'è un avvocato che raccoglie o gestisce i soldi del clan e ci sono contatti tra esponenti criminali con la politica locale. Inoltre, DIA e DDA da tempo ci dicono che la principale struttura economica, il mercato ortofrutticolo, è sottoposta al controllo delle imprese mafiose e, infine, c'è un'inchiesta su voto di scambio che a breve dovrebbe concludersi.
Siamo in presenza di una metastasi affaristico-politoco-mafiosa che si espande dall'economia illegale a quella legale? Se è così per sconfiggere questo cancro servono cure radioterapiche pesanti. Che senso ha provare sdegno per come viene descritta Vittoria e poi non fare nulla per riscattare la città? Chi pone un problema, piaccia o no, non è il problema. La cosi detta società civile se c'è batta un colpo.

L'ho scritto in un post precedente, serve l'accesso al mercato e serve capire quali forze politiche e sociali si sono messe a disposizione in questi anni. Chi si è opposto a parole e chi con i fatti? A ventisei anni dalla morte di Libero Grassi, ammazzato dalla mafia perché non voleva piegarsi a certe logiche, risuonano ancora le sue parole quando parlava dei partiti: “Prima di tutto la qualità del consenso”. Frase che va estesa anche alla presunta società civile.



lunedì 21 agosto 2017

Raccontare questa terra "babba" è pericoloso.


Studiare, capire e analizzare e poi raccontare, scrivendo o narrando, quello che accade nel nostro territorio. E' uno dei pochi rimedi. se non l'unico, alla rassegnazione che caratterizza questa terra. In questi luoghi l'acquiescenza grava pesantemente su fatti e misfatti. Rimuoverla è difficile, complicato e pericoloso. I miasmi coperti da questa cappa, se liberati, possono essere anche letali. Paolo Borromenti in questi anni ha provato a sollevare con cura un lembo di questo copertura. Ciò che ha visto lo ha descritto nei suoi articoli, lo ha raccontato nelle scuole, lo ha narrato nei convegni, ha parlato delle tante, troppe, anomalie del Sud Est siciliano. Ha accesso riflettori che alcuni volevano smorzati. Ha provato a moltiplicare occhi e voci. Ha tentato di costruire presidi e insediamenti. Tutte azioni che avevano e hanno un compito chiaro: avviare un contrasto all'economia criminale che controlla questa zona. Il Sud Est, secondo un vecchio detto, è Sicilia babba. Molti però dimenticano che questa è la zona di Giufà. Qui stupidità e scaltrezza, babbitudine e malignità, si fondono in un tutt'uno dando vita ad una maschera dal volto ingenuo, babbo appunto, ma utile a nascondere ogni sorta di malaffare. Paolo in questi anni è stato accusato di "esagerazione" di "cercare visibilità". Nei fatti ha provato a rimuovere la maschera di Giufà per vedere cosa c'è dietro.  In questa terra che babba non è, ma babba deve continuare ad apparire, ci sono forze che non vogliono che si metta in discussione l'apparente sciocchezza. Qui la troppa curiosità generare sempre certe irritazioni. Rischia di far emergere scomode verità che non possono e non devono diventare di pubblico dominio. Si crea troppa attenzione. Ed è cosi che scrivere e raccontare  gli intrecci tra economia e malaffare della Sicilia babba è diventato pericoloso per chi lo fa, come Paolo, e crea piccoli fastidi e incomprensioni per chi lo legge. Bisogna prenderne definitivamente atto: Nel Sud Est, nella nostra provincia, c'è un'enclave economico mafiosa forte che sa muoversi anche fuori il suo territorio. Nessuno può più far finta di non vederla. La migliore risposta all'atto vile subito da Paolo non può essere la rincorsa alla solidarietà o la richiesta di rafforzamento della sua scorta. Sono fatti dettati dalla circostanza. Serve squarciare il velo che nasconde con cura questa cisti, serve accendere più riflettori, serve maggiore conoscenza del territorio e delle sue economie, serve rendere la narrativa di questa terra narrativa di tutti. 

mercoledì 16 agosto 2017

Siamo come la terra dei fuochi?


Da oltre trent'anni, da maggio a settembre, la mattina all'alba o la sera all'imbrunire, si materializzano qua e là nella nostra plaga colonne di fumo denso e nero che ammorbano l'aria. E' la naturale conseguenza delle migliaia di tonnellate di plastica dismessa dalle serre o rifiuti di ogni tipo bruciate illegalmente. L'aria, in prossimità dell'incendio, per diversi minuti diventa acre, irritante, poi la nube si espande fino a dissolversi e tutto, all'apparenza, ritorna come prima. Ma non è così. Non è mai stato così. In quel fumo scuro e corposo c'è una quantità infinita di particelle di diossina, un composto di molecole altamente tossiche per l'uomo, gli animali e l'ambiente, che si depositano sul suolo. La diossina ha la capacità di bioaccumularsi, cioè si accumula in modo irreversibile sui tessuti degli organismi viventi. A lungo andare questo accumulo crea diversi problemi soprattutto nel sistema immunitario. L'agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha classificato questo aggregato nel gruppo 1 degli agenti cancerogeni per l'uomo. Quanto è pieno di diossina il nostro territorio? Quanta se ne è depositata in questi anni sulle nostre terre? Su gli animali che alleviamo? Su quello che mangiamo? Domande che non troveranno mai una risposta. L'Atlante Sanitario dei Tumori in Sicilia (finito di stampare nel novembre del 2016) ci dice che nei tre distretti dell'ASP 7, Ragusa, Modica, Vittoria, c'è una discreta incidenza di varie forme tumorali causati dalle diossine: leucemie acute, mieloma multiplo, tumori mammari, tumori epatici, cancro del retto, sarcomi ...(http://www.sanitasicilia.eu/RegistroTumori2016/ASS%20SALUTE_Atlante%20Tumori%202016.pdf). Strana casualità? Di certo c'è che il cancro non viene per caso. Non nasce, non si sviluppa e non fiorisce al nostro interno perché ne possediamo già i semi. Il tumore è il frutto dell'alterazione ambientale di un territorio (nel senso più ampio possibile del termine). Il fatto stesso che chi si ammala pronunci la frase “ho il cancro” significa che si ha scarsissima considerazione dei fattori ambientali. Penso che si avenuto il momento di parlare e denunciare con forza lo stato pietoso in cui versa il nostro territorio. E' venuto il momento di dire che nel “nostro modello di sviluppo” ci sono troppe anomalie, troppi buchi neri, che nel tempo sono stati abbondantemente tollerati e sostenuti. Dobbiamo continuare a far finta di nulla? Non siamo ai livelli della terra dei fuochi, ma non per questo abbiamo l'obbligo di raggiungere questo ennesimo traguardo negativo. Se la politica, la presunta società civile, chi amministra, le organizzazioni sindacali e di categoria non mettono al primo punto della loro agenda l'impegno per migliorare lo stato attuale del nostro ambiente significa che non c'è nessun interesse per la tutela della salute, per l’agricoltura di qualità, per lo sviluppo e il progresso di questa terra.