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martedì 27 ottobre 2020

Giovanni Spampinato, Ragusa 48 anni dopo.


Il 27 ottobre di 48 anni fa a Ragusa veniva ucciso Giovanni Spampinato, un giornalista che cercava la verità. Giovanni aveva capito cosa si muoveva da tempo sotto la tranquilla e indolente Ragusa. Alzò un lembo di quel tappeto che nascondeva verità imbarazzanti e iniziò a raccontarle. Minò alla base l'apparente e falsa serenità ragusana. Diventò pericoloso. Andava eliminato secondo uno schema che non sollevasse altra polvere. Fu ammazzato e poi iniziò una garbata delegittimazione del suo lavoro e della sua persona: "era un provocatore", "uno che se l’è cercata".  l'impostazione passò senza tante difficoltà, come  se avesse meritato quella fine e quindi diventò presto  un modello da non seguire, anzi, da dimenticare rapidamente. Franco Nicastro, suo amico e collega, in un lungo post sulla pagina Facebook "L'Ora edizione straordinaria",  traccia il profilo umano e professionale di Giovanni Spampinato inserendolo nel contesto di una Ragusa refrattaria, capace solo di nascondere le sue tante opacità. Una città che dopo 48 anni non è mutata.
 

 SPAMPINATO, UN DELITTO IN «NOME COLLETTIVO» di Franco Nicastro 

 I nodi cruciali dell’uccisione di Giovanni Spampinato mantengono, a distanza di tanti anni, il loro senso e la loro portata: lo sfondo cupo del delitto, il movente poco chiaro e mai adeguatamente approfondito. Con una lettura riduttiva dei fatti si è tentato, anche nelle sentenze, di circoscrivere il delitto a una dimensione individuale: il cronista testardo e curioso che prende di mira un ragazzo di buona famiglia sia pure dalle amicizie discutibili e che con i suoi articoli suscita una reazione violenta ma comprensibile. Tutto il contrario della narrazione che ne fece subito su L’Ora Mario Genco: un «delitto in nome collettivo», lo definì. Come collettivo e circolare era il concorso di coperture date all’assassino e alle motivazioni ancora oscure del suo gesto. L’uccisione di Giovanni Spampinato il 27 ottobre 1972 non era dunque una storia dominata da fattori personali. La sua lettura non poteva essere separata dal modello professionale del giornale L’Ora che Spampinato aveva trasferito in una realtà periferica. Con lui avevo condiviso un tratto di quella strada. Non avevo ancora vent’anni quando ci eravamo conosciuti nel 1969. Di lui non sapevo quasi nulla: per me era solo un nome che spuntava nelle pagine che ospitavano i nostri articoli. Lui da Ragusa, io da Vittoria. In buona parte conoscevo le sue sensibilità politiche, le sue curiosità culturali, le sue piccole grandi vicende umane. In parte le ho apprese dopo. Dai racconti degli amici ma soprattutto dal bel libro di Alberto Spampinato, che ci ha rimandato il profilo di un giovane del suo tempo nel quale si riflette un’intera generazione: quella che ha attraversato il ’68 oppure ne ha raccolto le spinte ideali, le utopie, le delusioni. Scoprimmo di avere una visione comune della professione e di subire l’omologazione e un sistema di relazioni che in quella parte della Sicilia componevano un’omogenea aggregazione di poteri. Inseguendo la visione alta del giornalismo non potevamo che approdare alla redazione de L’Ora. Lì dove prendeva forma un’informazione così diversa dal cosiddetto “giornalismo d’inchiesta” di oggi, spesso tributario delle fonti. A L’Ora si applicava un modello rovesciato: erano gli altri – gli investigatori, i magistrati, la Commissione antimafia – a prendere semmai spunto dagli articoli che anticipavano i grandi temi del discorso pubblico. Ed era un modello di giornalismo in sintonia con i processi di rinnovamento che in quegli anni attraversavano la grande stampa nazionale (Corriere della sera, Giorno, La Stampa) ma disomogeneo rispetto al panorama dell’informazione siciliana. Attaccava la mafia, denunciava il malaffare, svelava le trame del potere. Per questo L’Ora venne colpito da Cosa nostra con gli attentati e dal potere con le querele. Era inevitabile che anche Giovanni Spampinato diventasse un bersaglio: aveva portato quel giornalismo in una città immersa nella stagnazione politica e culturale. Attardata dal mito di una provincia “babba” risparmiata dalla mafia e criminalità, l’informazione restava legata alla cifra espositiva della cronaca. Questo registro giornalistico venne messo in crisi dal delitto di Angelo Tumino, ex consigliere del Msi, in cui si intrecciavano storie private e collegamenti ombrosi. Quello che ne scrisse con il taglio giornalistico più attento fu Giovanni Spampinato. Fu lui ad alzare il velo sulla figura di Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale e amico di Tumino, che diventerà poi il suo assassino. Sin dal primo momento affiorarono le carenze, le cautele e i limiti di un’inchiesta che la Procura generale di Catania avocò cercando di allargare il raggio d’azione. I processi – conclusi con la condanna a 21 anni ridotta a 14 in appello – non hanno però fatto giustizia né illuminato una verità definitiva se è vero quello che disse il pg Tommaso Auletta durante il dibattimento di appello: «La chiave del delitto Spampinato sta nelle paure di Campria, che non ha sparato per tutto quello che Spampinato aveva scritto sul delitto Tumino ma per tutto quello che non aveva (ancora) scritto sulle trame dei fascisti e sui pericolosi traffici (materiale archeologico, contatti con i contrabbandieri) nei quali erano coinvolti sia Tumino che Campria. Il delitto è una prova di fedeltà a quel mondo». Auletta parlava di trame dei fascisti. E metteva il dito su uno dei temi forti trattati da Spampinato che per L’Ora aveva segnalato i legami locali con ambienti della destra eversiva e le relazioni con il contrabbando, la malavita comune e nuclei di mafia in formazione. Era il tempo della strategia della tensione e la Sicilia era diventata il terreno in cui quella eversione veniva esercitata. Ma questo mondo non venne realmente portato dentro lo scenario del caso Spampinato. Dopo l’uccisione del giornalista, malgrado alcune voci fuori dal coro come quella dei cattolici, prese forma una manovra che mirava a un rovesciamento delle parti quasi che fosse proprio Spampinato ad avere agitato una comunità tranquilla e laboriosa. Lui che, come diceva il titolo dell’Ora, era stato “ucciso perché cercava la verità”. Del resto, rifletteva il mite Auletta, “se non sono questi i compiti dei giornalisti (la ricerca della verità, ndr) allora si possono abolire i giornali”.

sabato 24 ottobre 2020

Elezioni amministrative: bloccare il ruolo della borghesia mafiosa.

Il 22 e 23 Novembre Vittoria, forse (il condizionale col Covid è d'obbligo), andrà al voto. La campagna elettorale è entrata nella sua fase finale. I candidati si stanno confrontando civilmente, non mancano le scintille che infiammano di tanto in tanto il dibattito, ma tutto si sta svolgendo nella regola. La Città attende con ansia un sindaco che la amministri. I due anni di commissariamento lasceranno un'ampia cicatrice nel corpo della città, un solco profondo, difficile da rimarginare. Ho riletto in questi giorni la relazione del Prefetto - quella allegata nel decreto di scioglimento del consiglio comunale firmato dal Presidente della Repubblica - pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 05. 09. 2018. Nel documento emergono alcune delle direttrici dell'espansione del "fenomeno mafioso" in città e con esse la capacità dello stesso di assorbire velocemente consistenza economica e politica. I due anni di commissiariamento non hanno scalfito questo "fenomeno" e lo stesso ha avuto il tempo di mimetizzarsi benissimo. Vittoria, quindi, continua a trascinarsi questa zavorra immateriale, un nemico potente e impalpabilela che è la mafia, nella sua eccezione più mederna e accattivante. I quattro candidati hanno il dovere civile e morale di contrastare con forza questo cancro che nell'ultimo ventennio ha riempito di metastasi ogni settore economico e sociale della città. Quando parlo di mafia non faccio mai riferimento all'organizzazione stracciona e marginale di "deliquenti" rappresentata da personaggi semianalfabeti tanto violenti quanto volgari. Questa, come ho scritto più volte, è malavita organizzata, "facinorosi della classe infima", gente che con le loro azioni violente danno fastidio al potere e per questo viene ottimamente contrastata dagli organi inquirenti. Il fenomeno mafioso a cui mi riferisco è altro, è meno violento, è un sistema fatto di intrecci e relazioni tra imprese, professioni, finanza e istituzioni che decide, per esempio, come investire ingenti somme di denaro prodotte illegalmente nella privatizzazione di un aeroporto, piuttosto che un porto; oppure come e dove costruire un grosso centro commerciale o rilevare, o realizzare, una grande struttura turistica; oppure come modificare un piano regolatore o variare la destinazione d’uso di un’ampia superficie che invece andrebbe tutelata. L’accozzaglia di volgari malavitosi - "deliqunti" appunto - anche se organizzati, non sarebbe in grado di concepire e gestire siffatte delicatezze. Ecco, questa mafia moderna, borghese, imprenditoriale, professionale - delineata anche dalla relazione prefettizia - riesce ancora smuovere interessi? Ha la capacità di incidere sul funzionamento di una campagna elettorale? Riesce ad orientare il consenso e a controllare il voto diventando, di fatto, quel soggetto politico in grado di determinare la vittoria di un candidato rispetto ad un altro? Ho rivisto i dati elettorali delle ultime tre elezioni amministrative. Nel 2006, al primo turno, hanno votato 33 mila persona su 47 mila aventi diritto. Nel 2011, sempre al primo turno, hanno votato 34 mila elettori su 49 mila aventi diritto. Nel 2016, 32 mila su 50 mila aventi diritto (i dati ovviamente sono arrontondati). Risulta evidente come le elezioni amministrative sono un rito sempre meno frequentato, con un terzo degli elettori che praticano lo "sciopero del voto". E' presumibile pensare che anche in questa tornata elettorale - Coronavirus permettendo - un terzo degli aventi diritto al voto (forse col Covid qualcosa in più?) rimarrà a casa. Si può, quindi, ipotizzare che la capacità di mobilitazione elettorale della mafia borghese assumerà un ruolo sempre più determinante nell'elezione di questo o di quel cadidato? I dati, ci raccontano o no di quanto sia indispensabile il ruolo elettorale di certi gruppi? A Vittoria, per non riprecipitare nel baratro, serve o no cominciarne a capire, individuare e raccontare certi movimenti? Dei Ventura, dei Greco, e di tutte le altre famiglie è stata narrata ogni forma di malefatta, di vizio, di interesse. Di questo "fenomeno" invece si è evitato di scrivere pure una breve prefazione: perché? Vittoria deve riconquistare la sua dignità, deve dare speranza alle giovani generazioni, non un speranza fatta di attesa ma di rinascita, e per farlo si deve smascherare, isolare e, se è possibile, schiacciare questo sistema di intrecci e relazioni capace di coordinare conteporanemente l'economia e il consenso. In questo mese abbiamo il dovere di indignarci realmente e mobilitarci di fronte agli inviti e alle affabili sollecitazioni che possono arrivare da questo estabilishment politico economico. Serve uno scatto d'orgoglio, un calcio potente, che allontani la nostra rassegnazione e in grado di mettere a nudo e in difficoltà questo potere trasversale, vellutato e anestetizzante che domina da anni la città. Lo dobbiamo fare perchè Vittoria non precipiti ancora più in basso da dove è stata fatta stramazzare.

domenica 11 ottobre 2020

CHI SI MANGIO' VITTORIA?

 

Immagine tratta da Google Immagini

Si mangiaru Vittoria”. E’ da tempo che sento passare di bocca in bocca questo rassegnato e laconico commento. Lo dico subito, questa frase  è un pretesto utile a giustificare e a nascondere la nostra indolenza. E si! Perché noi vittoriesi siamo persone ricche di entusiasmo, di protagonismo, spesso spocchiosi, ironici, carichi di una voglia frenetica di lavorare per fare soldi e mettere in bella mostra i nostri beni. Ma tutta questa miscela di esuberanze frana miseramente verso l’ignavia peggiore: NOI NON ESPRIMIAMO MAI UN PARERE CHE ASSOMIGLI LONTANAMENTE AD UNA DENUNCIA, AD UNA CRITICA O AD UN GIUDIZIO SEVERO VERSO QUALSIASI FORMA DI POTERE. Questa è la parte più in ombra, ma più pronunciata, del nostro essere “vitturisi”; siamo spettatori e mai protagonisti (mentre divoravano Vittoria, noi dove eravamo?). Tutto questo non avviene solo per negligenza o per codardia, avviene soprattutto per rispetto. Noi rispettiamo, aduliamo, i potenti, i forti, i vincenti, gli scaltri, "i sperti"; questi, caricati dalle lusinghe e dal consenso, hanno piegato la città (mangiandosela) alla loro smania di potere.  “Chissu ci leva i scarpi o Signuri mentri ca camina” (quello toglie le scarpe a Dio mentre cammina) ed è sottinteso che Dio (u Signuri) non se ne accorge. Infatti Dio non si è accorto come è stata ridotta Vittoria in questi anni. La città è stata sfogliata dei suoi beni come una margherita, poi infangata e umiliata per bene, e in fine messa alla berlina. E a distrarre Dio ci hanno pensato in tanti, pure la chiesa che non ha svolto a pieno il suo compito pastorale e cioè: difendere i deboli, denunciare le ingiustizie, cacciare i mercanti dal tempio e soprattutto svegliare le coscienze. Non ha fatto nulla di tutto questo, anzi, ha assecondato la nostra ignavia e ha scelto di stare in silenzio, favorendo tacitamente le ambizioni di potere dei furbastri. Poi, quando non poteva farne a meno, provava a consolare chi veniva travolto dalle distorsioni e dai problemi generati dalle "feci" di chi si stava "mangiando" Vittoria. 

Se vogliamo bene ai nostri figli non possiamo continuare ad essere un popolo di rassegnati che giustificano la loro negligenza pronunciando con un mezzo sorriso: "si mangiaru Vittoria". Il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano, ma per essere vero cambiamento serve, soprattutto, controllare l'azione amministrativa di chi viene votato. Viceversa Vittoria, dopo che se la sono mangiata, inizieranno a raderla al suolo.