Il 27 ottobre di 48 anni fa a Ragusa veniva ucciso Giovanni Spampinato, un giornalista che cercava la verità. Giovanni aveva capito cosa si muoveva da tempo sotto la tranquilla e indolente Ragusa. Alzò un lembo di quel tappeto che nascondeva verità imbarazzanti e iniziò a raccontarle. Minò alla base l'apparente e falsa serenità ragusana. Diventò pericoloso. Andava eliminato secondo uno schema che non sollevasse altra polvere. Fu ammazzato e poi iniziò una garbata delegittimazione del suo lavoro e della sua persona: "era un provocatore", "uno che se l’è cercata". l'impostazione passò senza tante difficoltà, come se avesse meritato quella fine e quindi diventò presto un modello da non seguire, anzi, da dimenticare rapidamente. Franco Nicastro, suo amico e collega, in un lungo post sulla pagina Facebook "L'Ora edizione straordinaria", traccia il profilo umano e professionale di Giovanni Spampinato inserendolo nel contesto di una Ragusa refrattaria, capace solo di nascondere le sue tante opacità. Una città che dopo 48 anni non è mutata.
SPAMPINATO, UN DELITTO IN «NOME COLLETTIVO»
di Franco Nicastro
I nodi cruciali dell’uccisione di Giovanni Spampinato mantengono, a distanza di tanti anni, il loro senso e la loro
portata: lo sfondo cupo del delitto, il movente poco chiaro e mai adeguatamente
approfondito. Con una lettura riduttiva dei fatti si è tentato, anche nelle
sentenze, di circoscrivere il delitto a una dimensione individuale: il cronista
testardo e curioso che prende di mira un ragazzo di buona famiglia sia pure
dalle amicizie discutibili e che con i suoi articoli suscita una reazione
violenta ma comprensibile. Tutto il contrario della narrazione che ne fece
subito su L’Ora Mario Genco: un «delitto in nome collettivo», lo definì. Come
collettivo e circolare era il concorso di coperture date all’assassino e alle
motivazioni ancora oscure del suo gesto. L’uccisione di Giovanni Spampinato il
27 ottobre 1972 non era dunque una storia dominata da fattori personali. La sua
lettura non poteva essere separata dal modello professionale del giornale L’Ora
che Spampinato aveva trasferito in una realtà periferica. Con lui avevo
condiviso un tratto di quella strada. Non avevo ancora vent’anni quando ci
eravamo conosciuti nel 1969. Di lui non sapevo quasi nulla: per me era solo un
nome che spuntava nelle pagine che ospitavano i nostri articoli. Lui da Ragusa,
io da Vittoria. In buona parte conoscevo le sue sensibilità politiche, le sue
curiosità culturali, le sue piccole grandi vicende umane. In parte le ho apprese
dopo. Dai racconti degli amici ma soprattutto dal bel libro di Alberto
Spampinato, che ci ha rimandato il profilo di un giovane del suo tempo nel quale
si riflette un’intera generazione: quella che ha attraversato il ’68 oppure ne
ha raccolto le spinte ideali, le utopie, le delusioni. Scoprimmo di avere una
visione comune della professione e di subire l’omologazione e un sistema di
relazioni che in quella parte della Sicilia componevano un’omogenea aggregazione
di poteri. Inseguendo la visione alta del giornalismo non potevamo che approdare
alla redazione de L’Ora. Lì dove prendeva forma un’informazione così diversa dal
cosiddetto “giornalismo d’inchiesta” di oggi, spesso tributario delle fonti. A
L’Ora si applicava un modello rovesciato: erano gli altri – gli investigatori, i
magistrati, la Commissione antimafia – a prendere semmai spunto dagli articoli
che anticipavano i grandi temi del discorso pubblico. Ed era un modello di
giornalismo in sintonia con i processi di rinnovamento che in quegli anni
attraversavano la grande stampa nazionale (Corriere della sera, Giorno, La
Stampa) ma disomogeneo rispetto al panorama dell’informazione siciliana.
Attaccava la mafia, denunciava il malaffare, svelava le trame del potere. Per
questo L’Ora venne colpito da Cosa nostra con gli attentati e dal potere con le
querele. Era inevitabile che anche Giovanni Spampinato diventasse un bersaglio:
aveva portato quel giornalismo in una città immersa nella stagnazione politica e
culturale. Attardata dal mito di una provincia “babba” risparmiata dalla mafia e
criminalità, l’informazione restava legata alla cifra espositiva della cronaca.
Questo registro giornalistico venne messo in crisi dal delitto di Angelo Tumino,
ex consigliere del Msi, in cui si intrecciavano storie private e collegamenti
ombrosi. Quello che ne scrisse con il taglio giornalistico più attento fu
Giovanni Spampinato. Fu lui ad alzare il velo sulla figura di Roberto Campria,
figlio del presidente del tribunale e amico di Tumino, che diventerà poi il suo
assassino. Sin dal primo momento affiorarono le carenze, le cautele e i limiti
di un’inchiesta che la Procura generale di Catania avocò cercando di allargare
il raggio d’azione. I processi – conclusi con la condanna a 21 anni ridotta a 14
in appello – non hanno però fatto giustizia né illuminato una verità definitiva
se è vero quello che disse il pg Tommaso Auletta durante il dibattimento di
appello: «La chiave del delitto Spampinato sta nelle paure di Campria, che non
ha sparato per tutto quello che Spampinato aveva scritto sul delitto Tumino ma
per tutto quello che non aveva (ancora) scritto sulle trame dei fascisti e sui
pericolosi traffici (materiale archeologico, contatti con i contrabbandieri) nei
quali erano coinvolti sia Tumino che Campria. Il delitto è una prova di fedeltà
a quel mondo». Auletta parlava di trame dei fascisti. E metteva il dito su uno
dei temi forti trattati da Spampinato che per L’Ora aveva segnalato i legami
locali con ambienti della destra eversiva e le relazioni con il contrabbando, la
malavita comune e nuclei di mafia in formazione. Era il tempo della strategia
della tensione e la Sicilia era diventata il terreno in cui quella eversione
veniva esercitata. Ma questo mondo non venne realmente portato dentro lo
scenario del caso Spampinato. Dopo l’uccisione del giornalista, malgrado alcune
voci fuori dal coro come quella dei cattolici, prese forma una manovra che
mirava a un rovesciamento delle parti quasi che fosse proprio Spampinato ad
avere agitato una comunità tranquilla e laboriosa. Lui che, come diceva il
titolo dell’Ora, era stato “ucciso perché cercava la verità”. Del resto,
rifletteva il mite Auletta, “se non sono questi i compiti dei giornalisti (la
ricerca della verità, ndr) allora si possono abolire i giornali”.
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